Il ceto medio non esiste più, è rimasto sepolto sotto una valanga di tasse

3 Dic 2013 16:14 - di Silvano Moffa

Le statistiche aggiornate del Ministero dell’economia  sul “contribuente tipo” non fanno altro che confermare ciò che era ormai evidente. Il ceto medio nel nostro Paese è stato distrutto e annientato dalle tasse. Da asse portante e fattore di equilibrio sociale, vero e proprio soggetto  cui ancorare lo sviluppo negli anni della crescita economica e dell’ingresso nella élite  delle nazioni più industrializzate, il ceto medio è stato letteralmente preso d’assalto da una politica fiscale occhiuta e ingenerosa.  Dati ufficiali alla mano, più della metà dell’Irpef, ossia dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, grava sulle tasche di lavoratori, pensionati e imprenditori che guadagnano almeno duemila euro al mese. Senza contare, ovviamente, il peso di altre tasse e balzelli in aggiunta: dalle addizionali regionali e comunali ai contributi sociali, dall’Imu alle ritenute sui risparmi, alle accise sui carburanti, all’Iva sulle bollette e sui consumi in genere. Insomma, il ceto medio italiano si è progressivamente impoverito sotto la mannaia del fisco. Intendiamoci, il declino del ceto medio, fenomeno comune a gran parte delle democrazie industriali dell’Ottocento, non è come un fulmine che arriva inatteso. Nel 1985 Neal H. Rosenthal , economista del ministero del Lavoro americano, si chiedeva in un saggio di largo successo, se era già a quel tempo iniziata una polarizzazione dei redditi con la conseguente creazione di una gran massa di arricchiti da un lato, e di un esercito di nuovi proletari dall’altro, con in mezzo l’assottigliamento dei ceti medi. L’analisi si basava su dati incontrovertibili. Ne scaturiva la previsione che l’avanzare dei  processi di deindustrializzazione e  l’avvento delle nuove tecnologie ad alta redditività avrebbero inciso notevolmente su un fenomeno, fino a quel momento appena percepito. Le previsioni di Rosenthal si sono dimostrate abbastanza esatte e lungimiranti. Peraltro, l’economista le aveva formulate in epoca pre-Internet, quando Microsof era ancora una piccola azienda e Bill Gates aveva da poco fatto irruzione con il suo nuovo sistema operativo nel mondo dei  personal computer. Con taglio diverso, qualche anno dopo, toccò a un economista del Mit, Rudi Dornbusch , cimentarsi con la scomparsa del ceto medio. In un saggio dal titolo assai significativo Bye bye middle class, Dornbusch allargava l’ambito della riflessione fino ad indicare al mondo politico l’urgenza di cominciare a prepararsi a tempi difficili, in cui la competizione tra sistemi e imprese, le privatizzazioni e la globalizzazione avrebbero portato vantaggi economici , ma anche generato rilevanti problemi sociali. Nuove diseguaglianze e una più vasta insicurezza economica apparivano ormai all’orizzonte, individuando il terreno di una nuova sfida per i governi occidentali. In Italia, nel 2006, Massimo Gaggi e Edoardo Narduzzi, dedicheranno all’argomento un interessante saggio, anch’esso dal titolo emblematico,La fine del ceto medio, le cui conclusioni appaiono estremamente attuali.  Soprattutto nella parte dove vengono messi a fuoco i limiti del modello europeo: un’Europa rigida e lenta, che non tiene il passo con i cambiamenti economici in atto  e che non riesce ad adattarsi a questi ultimi, prigioniera  com’è della sua stessa storia. Va detto che si tratta di scritti e analisi che precedono la Grande Crisi e, in alcuni casi, lo stesso impatto dell’euro nella economia  europea e mondiale. Questi ultimi avvenimenti non hanno fatto altro che ulteriormente  appesantire e aggravare la condizione complessiva del ceto medio. Da noi, più che altrove. Fatto sta che il ceto medio resta sulla scena quasi esclusivamente come soggetto da tassare a livelli non più tollerabili, a fronte di una piaga dell’evasione che vale qualcosa come 120 miliardi sottratti all’erario. La previsione, in epoca pre-crisi, di un ceto medio che esauriva il ruolo  ricoperto per oltre due secoli come elemento fondante della società occidentale, per effetto dei cambiamenti imposti dalla globalizzazione, ha mostrato il volto cupo di una stagione punteggiata dall’emergere di un ceto indistinto di consumatori  cui oggi manca ossigeno, respiro e denaro per mantenere  funzione portante e garantire a se stesso un tenore di vita decente. Al di là di tutto, la fotografia dell’impoverimento progressivo della società italiana, reso  più acuto da una politica fiscale assurda e iniqua,  ci consegna una paese in frantumi. Senza più rotta. Privo di futuro. Incalzato dalle logiche stringenti e iugulatorie della tecnocrazia imperane di Bruxelles  che continua a martellare, imponendo un regime di austerità che comprime ogni  minimo spunto di crescita . Intanto, restano al governo poco meno di sessanta giorni per evitare che scatti l’ennesima clausola vessatoria inserita nella legge di stabilità. Se l’esecutivo di Letta non troverà   500 milioni di euro per assicurare le necessarie coperture, scatterà automaticamente il meccanismo di taglio lineare delle detrazioni fiscali previsto dall’art.15 del testo unico delle imposte sui redditi. Si tratta di una serie di sconti fiscali  che permettono di detrarre dall’Irpef,nel limite del 19 % ,molte spese sostenute dal contribuente. Tra le numerose voci ci sono anche il mutuo per la casa, le spese sanitarie e quelle per l’istruzione dei figli.  Così, al danno si aggiunge la beffa.

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