La desertificazione manifatturiera europea? È figlia del dominio tedesco

6 Nov 2013 16:32 - di Silvano Moffa

Giulio Sapelli, storico dell’economia, sostiene, non a torto, che, in altri tempi, l’alzata di scudi degli Stati Uniti, nel denunciare  i rischi che la politica deflattiva europea di origine tedesca rovescia in prospettiva su tutto il mondo, avrebbe prefigurato una guerra a colpi di cannone. Questo non esclude, comunque, che le guerre si possano condurre con altri mezzi. E’ la per la prima volta che gli Stati Uniti lanciano un segnale così duro e netto nei confronti della Germania,  le cui politiche di rigore vengono giudicate concausa della mancata crescita mondiale. In discussione – e questo è il dato rilevante sul quale ancora, purtroppo, c ‘è scarsa attenzione nel mondo politico – è quel che lo stesso Sapelli  definisce:”desertificazione manifatturiera europea”. Una desertificazione che l’egemonia tedesca impone a tutta Europa e quindi al più grande mercato mondiale, come quello americano. Con la variante non proprio nobile che la stessa austerità che pretende dai partner europei, la Merkel non la applica al proprio paese. Se persino uno come Romano Prodi invoca, con tardiva resipiscenza, una sorta di patto d’acciaio tra i paesi latini per fare argine alla egemonia economica tedesca, dopo averne subito il  disegno preponderante favorendo un cambio sbilanciato dell’euro, le cui conseguenze si fanno ancora sentire, vuol dire che gli errori originari e la durezza permanente della crisi scaturita dalla finanza drogata di questi anni, stanno venendo al pettine, se non altro come misura di consapevolezza per cercare di invertire la rotta e rimettere in sesto l’economia produttiva nel mondo globalizzato.  In questo quadro, non può passare sotto silenzio il fatto che la grande coalizione tra democratici e socialdemocratici in Germania si stia apprestando ad adottare una iniziativa di stampo Keynesiano, quale quella di  incrementare il salario minimo al fine di alimentare la domanda interna. Ciò significa adottare una politica anti-deflattiva , capace di alimentare i consumi e determinare la crescita del prodotto interno lordo. Esattamente quel che viene vietato ai partner europei, ai quali si chiede solo e soltanto di rispettare i parametri di Maastricht. Una strategia suicida, osserva Giulio Sapelli su Il Messaggero, che alla lunga travolge anche chi vorrebbe rifuggirla. Non va dimenticato che di politiche deflattive di marca teutonica ne abbiamo  viste e subite parecchie  nei decenni scorsi, ancor prima che l’euro si affermasse come moneta unica .  Più della deflazione, però, la vera incongruenza che ha indebolito le economie dei paesi mediterranei,  e in particolare il nostro,  è stata la diversità dei modelli  presenti  all’interno del tessuto economico-produttivo europeo, la loro differente tipologia e il controverso rapporto tra nazione e internazionalizzazione.  Su quest’ultimo aspetto, proprio  Giulio Sapelli  ha offerto nei suoi  saggi una chiave di lettura di assoluto interesse.  Il mercato unico europeo che ha preceduto l’euro, bene o male, era riuscito a mascherare la profonda dicotomia tra i diversi sistemi economici e produttivi, fra quello “renano” e quello fondato sulla piccola impresa e su una contrattualistica lavorativa tra le meno flessibili e maggiormente coercitive per l’imprenditore. Una tale a-sincronia non poteva durare a lungo. E non poteva che provocare, prima o poi, uno scontro tra i due modelli. L’unificazione tedesca  fu ignorata per quello che effettivamente avrebbe rappresentato: il ritorno dell’assoluto nella storia europea.  Un assoluto conflittuale e non pacifico, anche se solo con le armi dell’economia. A un Kohl che voleva l’unificazione della Germania a parità di valore del marco tra Est e Ovest e creava in tal modo una nuova centralità geo-strategica nel cuore dell’Europa, la Francia di Mitterand e l’Italia di Andreotti  opposero l’euro. L’idea  portante del progetto franco-italiano mirava ad amalgamare il blocco tedesco “nella pozione bollente del brodo europeo, avendo per chefs  le banche d’affari internazionali”. Il risultato ora lo conosciamo tutti. Finita la crescita, con l’irrompere della Grande Crisi, quel progetto, nato malato, mostra tutte le sue crepe.  La Germania  ha dimostrato di essere l’unica in grado di determinare fattori di amalgama. Perché è l’unica in grado di mantenere alto il ritmo della produttività e prendersi la libertà di  modulare all’interno la propria economia spingendo sulla leva anti- deflattiva.  L’euro è così diventato uno strumento di divisione sostanziale tra le economie dei singoli Stati. Per dir meglio, l’euro tiene monetariamente, ma in realtà si spezza nei fatti.  A questo punto bisognerebbe trovare la forza e il coraggio di riequilibrare il sistema europeo. Come?  Cominciando da una radicale revisione dei Trattati; ridiscutendo le regole troppo stringenti per i sistemi produttivi diversi da quello tedesco; mettendo in campo una strategia di alleanze tra l’Europa mediterranea  in grado di bilanciare il peso  del Nord; ridefinendo , appunto, il rapporto tra nazione e internazionalizzazione e fissando  i limiti entro i quali recuperare un ambito di sovranità degli Stati, dopo  averli pesantemente esposti al progressivo saccheggio. Il monito proveniente dagli Stati Uniti offre  l’occasione propizia: inquadra il tema  nella prospettiva di un nuovo rapporto euro-atlantico. Soprattutto, apre lo spazio alla costruzione di una fisionomia nuova e più accettabile dell’ unione europea. E aiuta a declinare il profilo di una Europa  che coltivi nuove aggregazioni, senza dover subire il dominio di  Berlino.

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