Dal caso Shalabayeva una lezione su burocrazia e politica: se sono separate, saltano le regole

20 Lug 2013 15:00 - di Silvano Moffa

Potere e funzione, nel settore pubblico, sono separati da un filo molto sottile. Anzi, spesso si mescolano. Perché il potere non si esercita senza un funzione. E la funzione implica una dose  specifica di potere se vuole essere effettiva. E’ il  dilemma che riaffiora nel dibattito che si è aperto dopo il caso Shalabayeva che sta creando la diverticolite tra i partiti che sostengono il governo e non pochi inquietanti risvolti nei rapporti fra politica e amministrazione. Procediamo con ordine. La prima questione riguarda il rapporto tra politica e burocrazia. Il termine burocrazia deriva dal francese bureau (l’ufficio) e dal greco kràtos (potere). Essa indica quell’insieme di apparati e di persone cui  è affidata, a diversi livelli, l’amministrazione di uno Stato o anche di enti non statali. Max Weber, studioso  della materia, ne teorizzò principi e distinzioni rispetto alle forme tradizionali di amministrazione del passato. Competenza, merito, condotta impersonale e formalistica, rapporto gerarchico, precisi meccanismi di carriera, un insieme di regole e norme che sovraintendono ruoli e comportamenti concorrono a delineare la figura del funzionario dell’amministrazione pubblica con la nascita dello Stato moderno. Poi, con il diffondersi della burocrazia , oltre che nello Stato, in quasi tutte le forme pubbliche e private di organizzazione amministrativa (partiti, sindacati, aziende ) abbiamo assistito ad un progressivo processo di burocratizzazione, talmente pervasivo , da trasformarsi in un sistema di regole così spesso da rendere capzioso, irresponsabile e, in molti casi, anonimo l’apparato che ne sovrintende la funzione. Un apparato che ha trasformato in potere una funzione servente.  E che ha trovato sempre maggior forza nel crescente indebolimento della politica.

Se contiguità c’è  tra politica e burocrazia è qui che va inserita la chiave di accesso per comprendere quel che sta accadendo. La Costituzione, le leggi , i regolamenti stabiliscono gli ampi poteri giuridici del settore pubblico e  vincolano dirigenti e funzionari al loro rispetto. Dettano le regole del gioco. L’importanza di queste regole non può essere sottostimata. Esse incidono sul comportamento e sulla qualità delle istituzioni. Allo stesso tempo sono qualità e professionalità dei dirigenti e dei funzionari  a dare spessore e credibilità all’apparato istituzionale nel suo complesso. Le regole  sono  una serie di istituzioni. Non sono ancora le “politiche”. Fino a quando non si dà inizio al gioco, queste regole sono soltanto dei pezzi di carta. Si può dire che il gioco è duplice: da un lato c’è chi stabilisce le regole, dall’altro chi le applica. Ma chi è chiamato a stabilire le regole – il responsabile politico – non può e non deve estraniarsi dalla partita. Ha il dovere di stabilire le regole e controllare che siano rispettate.

Con le riforme Bassanini  nella pubblica amministrazione fu introdotto il principio di distinzione tra indirizzo e gestione nell’azione amministrativa. Principio utile a fissare dei paletti per evitare commistioni e invasioni di campo tra due funzioni essenziali per il buon andamento della pubblica amministrazione. Principio indispensabile anche per combattere malcostume e corruttela ormai dilaganti ad ogni livello del sistema pubblico. La mancanza di un ancoraggio di quel sano principio a forme di regolamento che ne declinassero l’esercizio con chiarezza ed efficacia ha finito, però,  con il procurare effetti  distorti.

E’ accaduto che la dirigenza pubblica – nello Stato, nelle Regioni e negli Enti Locali – in alcuni casi, prendesse  il sopravvento su una politica incapace di esercitare il potere , mentre, in altri casi, declinasse dalle responsabilità rifugiandosi nell’inerzia. Nell’un caso e nell’altro,  alterando o frenando  il flusso dell’attività amministrativa, con l’effetto , alla lunga, di intaccare  il senso stesso della democrazia.

Alla luce di quanto detto, prendersela con chi ha beneficiato e al tempo stesso è divenuto vittima di un tale sistema non appare corretto. Al netto di comportamenti non adeguati,non professionali o, peggio, scorretti e illegali, il buon andamento dell’Amministrazione pubblica deriva dalla compresenza  tra ethos burocratico e ethos democratico . La loro composizione in unità non è priva di tensioni. Il primo persegue l’interesse e il primato dello Stato, il secondo l’interesse e il primato dei gruppi sociali che esprimono maggioranze parlamentari e di governo. Sta di fatto, comunque, che la questione etica era e resta la direttrice primaria per una solida e credibile amministrazione. Al contempo è illusorio pensare che possa esserci dimensione etica senza la possibilità di una scelta. Occorre domandarsi , senza ipocrisia, quali siano le possibilità strutturali di scelta che appartengo intrinsecamente ai burocrati. Se si rimane nello schema formale del rispetto delle norme, non può che essere questo e soltanto questo il criterio del comportamento eticamente corretto. Se invece si punta al modello sostanziale del raggiungimento di obiettivi determinati dalla politica, è su questo piano che si misurano etica e responsabilità. La scelta, mi pare, non sia affatto di poco conto.

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