“Blowin’ in the wind” compie 50 anni. Ma non voleva essere un inno di protesta

27 Mag 2013 13:30 - di Bianca Conte

Il 27 maggio 1963 usciva negli Stati Uniti The Freewheelin’ Bob Dylan, secondo Lp di un ragazzo in procinto di diventare uno tra i più celebri cantautori della sua epoca. Dylan aveva compiuto 22 anni tre giorni prima: il disco si apriva con una canzone destinata a diventare ancora più famosa del suo autore, Blowin’ In The Wind. Il brano, dunque, oggi compie mezzo secolo di vita, accreditandosi, tra riconoscimenti critici e successi internazionali, come l’opera che ha superato il maestro che l’ha composta e che, tuttora, a distanza di anni dalla sua genesi e divulgazione, ancora anima il dibattito tra i fautori del contenuto pacifista e i sostenitori di un significato biblico e universalizzante. E nell’ambito dell’esegesi filologica perennemente in corso, tra un’interpretazione spirituale e una traduzione sociologica, lo sfondo storico dell’America anni Sessanta, e la mitologia intestata alla composizione del testo, che lo stesso Dylan contribuì a creare raccontando di averlo scritto in dieci minuti di un pomeriggio qualunque. Il resto è cronaca, la blasonatissima cronaca di un successo, esploso con l’esibizione davanti a Martin Luther King, durante un’epocale manifestazione di protesta a Washington: un lancio doc che ha trasformato in un inno del Movimento per i diritti civili una canzone che non nacque come un brano di protesta. Di più: era una ballata lirica dagli accenti biblici, che si interrogava sul destino dell’uomo e sulle vie che deve percorrere nel corso del suo passaggio esistenziale. Interrogativi epocali poi tradotti in mantra civili, adottati dalla cultura popolare e passati di bocca in bocca attraverso le interpretazioni dei più grandi, da Stevie Wonder a Sam Cooke, da Neil Young a Marlene Dietrich (la canzone è stata suonata praticamente da chiunque abbia mai imbracciato una chitarra). Un brano amato a prescindere dalle valenze interpretative. Dal clima in cui è nato. Dalle voci che si sono prestate a diffonderne significato etico e melodia artistica. Un brano spesso etichettato con il marchio d’origine della canzone di protesta, marchio però disconosciuto dallo stesso Dylan che, a riguardo, si espresse chiaramente fin dall’inizio, fin dalla prima sera in cui cantò Blowin’ in the Wind in un piccolo club, giusto poco dopo averla scritta: «Questa non è una canzone di protesta o qualcosa del genere. Io non scrivo canzoni di protesta». E del resto, quando compose il pezzo (la cui melodia fu ispirata all’autore da un canto degli schiavi afroamericani: No More Auction Block), Dylan non era ancora quel menestrello della controcultura che l’immaginario collettivo avrebbe accreditato poi, leggendo in quelle tre strofe e nel ritornello – rivolto metaforicamente ad un ipotetico amico, nel quale si potrebbe identificare l’intera umanità – il manifesto della generazione dei giovani statunitensi disillusi dalla politica portata avanti negli anni ’50 e ’60 dal loro paese, e sfociata dapprima nella guerra fredda e poi nella guerra del Vietnam. Una lettura prosaica di una composizione dall’innegabile lirismo, che apre a molte domande a cui, come recita lo stesso brano, viene data una risposta che lascia comunque uno spiraglio all’ottimismo: una risposta che c’è, e a portarla basterà un soffio di vento.

 

 

 

 

 

 

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