Polito (in fondo) ha un sogno: votare a destra. «Ma aspetto che si dia un respiro europeo»

25 Mar 2013 15:07 - di Alessandro Sansoni

Il dibattito sulla destra si alimenta anche dei contributi di analisti esterni al suo perimetro. Un notevole successo sta ottenendo il saggio di Antonio Polito “In fondo a Destra. Cent’anni di fallimenti politici”, edito a gennaio e già prossimo ad una terza edizione.

Direttore, non è molto carino come titolo: “In fondo a destra”…

Effettivamente, ma in realtà, come spiego nell’introduzione, è insito in questa espressione il rammarico autobiografico per l’assenza in Italia di una destra “normale”. In fondo a me piacerebbe poter votare almeno una volta a destra.

Quando parla di insuccessi, lei si riferisce evidentemente alla mancata realizzazione durante l’esperienza di governo di alcuni propositi politico-programmatici. Ma quando ha chiuso il libro se l’aspettava il grande recupero di Berlusconi alle ultime elezioni?

Io contesto l’idea di un grande recupero del Cavaliere. Credo si sia trattato piuttosto di un collasso del centrosinistra. E’ difficile parlare di recupero quando un partito scende dal 38 al 22%. Non bisogna dimenticare che l’elettorato di centrodestra in Italia è tradizionalmente maggioritario e la sinistra, da sola, non riuscirà mai a vincere, essendo il tessuto sociale del paese sostanzialmente conservatore. Anche per questo ritengo che l’Italia abbia bisogno di un solido partito conservatore, depurato da atteggiamenti populistici eversivi rispetto all’impalcatura costituzionale del paese, altrimenti si finisce per alimentare il corporativismo che in questi anni ha impedito di avviare un serio processo di modernizzazione.

Nel libro lei ripercorre le vicende della destra italiana dall’Unità ad oggi, con particolare riferimento alla Seconda Repubblica. È paradossale, però, che nella sua analisi Alleanza Nazionale rivesta un ruolo secondario rispetto a Berlusconi ed alla Lega…

È chiaro che a me interessa ragionare sulla “destra di governo”, che negli ultimi vent’anni si è incarnata in Berlusconi. Quanto ad An io do poca rilevanza alla sua fine, ma non agli inizi di quell’esperienza. La trasformazione del Msi in An fu una possibilità offerta al paese, soprattutto per quanto concerne la costruzione di una vera democrazia dell’alternanza. Il bipolarismo in Italia arriva quasi per caso, ma la classe dirigente missina l’ha subito più che promuoverlo. Nel ’93 vi fu un errore di valutazione sul referendum Segni teso ad abolire il sistema promozionale. Come nel ’53 Michelini di fronte alla cosiddetta “Legge Truffa”, Fini non capì che la conventio ad excludendum della destra si basava tecnicamente proprio sul proporzionale. L’affossamento della Legge Truffa provocò infatti l’apertura della Dc al centrosinistra, quarant’anni più tardi invece la fortuna arrise a Fini e la trasformazione in senso maggioritario dell’assetto politico e la discesa in campo di Berlusconi consentirono lo sdoganamento della destra. Al contrario Fini non mancò di tempismo allorchè affrontò, ben prima di Berlusconi, il tema dell’atto storico fondativo della Repubblica, ossia la Resistenza. Con un revisionismo poco apprezzato dalla base del partito, Fini ha cercato di rendere la posizione politica di An coerente con gli assetti costituzionali del paese. Purtroppo l’altra debolezza della destra italiana è stato l’atteggiamento tenuto rispetto al valore dell’unità nazionale. Non esiste una destra nel mondo che non faccia del patriottismo uno dei suoi principi cardinali. Berlusconi avrebbe dovuto avvolgersi nel tricolore che gli offriva An. Essa però, nella dialettica con la Lega, si è rivelata poco incisiva, come dimostra l’atteggiamento tenuto dal governo in occasione delle celebrazioni dei 150 anni.

Un’altra anomalia della destra della Seconda Repubblica sta nel fatto che, come negli Stati Uniti  i neocon, tra i suoi pochi esponenti dotati di caratura intellettuale la maggior parte provenga dalle file della sinistra…

In campo culturale è indubbiamente così. L’interdizione culturale costruita dalla sinistra è ancora forte. Se in vent’anni non c’è stato un cambiamento la colpa è soprattutto di Berlusconi. Egli aveva tutti gli strumenti per tentare un’operazione simile a quella realizzata negli Usa grazie ad investimenti privati attraverso i think thank  e le fondazioni, ma il problema è che per lui la cultura è solo un orpello. Avrebbe dovuto capire che non si domina efficacemente per vent’anni la scena politica di un paese senza un progetto culturale che contribuisca a creare un senso comune.

Il suo schema destra-sinistra sembra ricalcare da vicino il modello anglosassone, ma tale schema è adeguato alla realtà italiana?

Indubbiamente c’è il rischio di assimilare la destra alle destre liberiste anglossassoni, quelle della Thatcher e di Reagan per intenderci. Di destre al contrario ne esistono molte. La destra francese, per esempio, è statalista, quella tedesca ha sviluppato una particolare identità legata all’economia sociale di mercato. Ma il punto vero è che entrambe sono perfettamente inserite nella tradizione storico-politica e nell’assetto costituzionale del loro paese. In Italia invece c’è la Lega che vuole dividere la nazione. Anche la volontà di riformare la Costituzione tante volte espressa dalle destre italiane è pienamente legittima, anzi sarebbe auspicabile. Ma non ci si può lamentare continuamente del sistema di contrappesi delle istituzioni vigenti come fa Berlusconi, senza poi trovare la forza di riformarle veramente. Possibile che la destra italiana sia ancora in lotta con la Repubblica?

Dica la verità direttore, la destra che auspica assomiglia molto alla sinistra che  vorrebbe.

È un’osservazione simpatica, ma non è così, perché la sinistra che vorrei continuerebbe a proporre il concetto di uguaglianza come suo faro, mentre la destra per definizione non è egualitaria. Semmai il merito è una sua cifra. Se poi sosteniamo che destra e sinistra devono potersi alternare senza traumi alla guida del paese, senza che questo significhi un cambio di regime, beh questo è senz’altro un mio auspicio.

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