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Social pieni, urne vuote: l’astensionismo è la vera emergenza democratica che va oltre il dato politico

Ridare un cuore alla politica

Social pieni, urne vuote: l’astensionismo è la vera emergenza democratica che va oltre il dato politico

Politica - di Mario Bozzi Sentieri - 1 Dicembre 2025 alle 10:20

Rieccoci a fare i conti con l’astensionismo. Cifre dell’affluenza al voto  ancora in picchiata e soliti discorsi, che durano giusto lo spazio di un mattino:  fuga dalla politica, i cittadini non si riconoscono più nei partiti, la classe politica è ai minimi storici della credibilità.

Astensionismo e dintorni: no ad analisi semplicistiche

Rispetto al che  fare i commenti immediati sono, in larga misura, accomunati da un disarmante semplicismo, liquidando l’astensionismo come un fenomeno fisiologico, perché comune a tutte le “democrazie avanzate”. Troppo poco per alzare il livello del  dibattito sulla disaffezione al voto,  sui lunghi e complicati  percorsi della libertà e della partecipazione politica.
A ben guardare la crisi della rappresentanza nel nostro Paese e un po’ in tutta l’Europa ha tratti profondi, che vanno ben oltre il mero dato politico. È certamente crisi  istituzionale ed insieme culturale, sociale ed economica. Ma è soprattutto la crisi di un modello d’identità collettiva, a cui,  volenti o nolenti, si è conformata la società occidentale, oggi costretta a fare i conti con la sua “solitudine”, con la perdita di luoghi in cui ritrovarsi, di vincoli ideali, di aspettative condivise, di quei “corpi intermedi” che per secoli sono stati luoghi essenziali di intermediazione e partecipazione politica e sociale.
A vincere pare essere  la visione materialistico borghese, tesa a “liberare” l’uomo dai “vincoli” tradizionali  (religiosi, sociali, territoriali, familiari), rendendolo formalisticamente  uguale al suo simile (gli stessi diritti/gli stessi doveri), ma nella sostanza più debole e dunque “costretto” a gestire individualmente le sfide della quotidianità e del futuro. A passare è  l’idea del laisser faire, laisser passer, con la precarietà di massa, una precarietà non solo economica, ma anche culturale e politica.

L’avvertimento di Roger Scruton

Non a caso Roger Scruton, attento lettore dell’identità occidentale, nell’evidenziarne le debolezze, metteva in risalto la necessità (La cultura conta. Fede e sentimento in un mondo sotto assedio, 2007)  che il progetto occidentalista (giocato sulla coppia democrazia vitale/tecnologia inarrestabile) conquistasse i cuori, generando “quel profondo  attaccamento da cui dipende il futuro della nostra civiltà”.  E dunque cultura “connessa col bisogno umano di appartenenza”, nel segno di un patrimonio condiviso dai membri di un gruppo sociale.
Da questa  presa di coscienza – aggiungiamo noi – possono prendere nuova forza gli strumenti di mediazione socio-culturale  tra lo Stato e l’individuo,  tasselli fondamentali della partecipazione integrale, fondata sulla partecipazione di tutti gli individui alla costruzione del proprio destino comune. Tale partecipazione si realizza su più livelli: familiare, aziendale, territoriale, settoriale, nazionale. Alla base la definizione di un sistema di delega dei poteri, in grado di favorire l’integrazione tra rappresentati e rappresentanti, tra partiti e corpo elettorale, tra lavoratori e datori di lavoro.
La famiglia è il primo gruppo naturale interposto tra l’uomo e la società. Per le sue caratteristiche esso deve essere soggetto di diritti, in quanto portatore di valori originari, decisivi nella formazione morale, culturale e fisica dell’uomo.
Al secondo livello, quello aziendale, il lavoratore concorre all’esercizio del potere in quanto comproprietario. L’impresa è  comunità societaria e non luogo di interessi contrapposti.
Sul territorio la Camera della programmazione ha come scopo principale quello di mediare gli interessi settoriali presenti sul territorio e formulare un piano programmatico della produzione dei beni, dei consumi e dei servizi.
L’organizzazione di categoria è l’istituto rappresentativo delle imprese e dei lavoratori. E’ inoltre il settore produttivo che organizza tutte le imprese inserite nel comune ciclo merceologico.
A livello centrale con la partecipazione integrale si realizza l’inserimento all’interno degli organismi statuali delle organizzazioni produttive e professionali, di quelle delle famiglie, degli enti spirituali, culturali, artistici nonché degli enti territoriali e dei servizi sociali.
Per la sua organicità la partecipazione integrale ha l’ambizione di esprimere una concezione della società e dello Stato altamente democratica, in quanto tende a realizzare il massimo di partecipazione in tutti i settori della vita nazionale.

Oltre certa retorica “democratica”

Ultimo, ma non meno essenziale elemento “ricostruttivo”  l’affermazione di una democrazia compiutamente partecipativa, espressione di una cultura condivisa e di adeguati strumenti sociali di integrazione. Alla base il principio di sussidiarietà, al livello più vicino possibile ai cittadini ed alle loro comunità sociali,  in forza del principio secondo cui, tra i vari soggetti che possono intervenire per dare una risposta a bisogni individuali e collettivi in carico a soggetti pubblici, è normalmente più efficace l’Ente più vicino alla necessità da soddisfare. Una volta individuati i livelli istituzionali più adatti al perseguimento dell’interesse generale attraverso lo svolgimento delle diverse funzionali pubbliche, la sussidiarietà, intesa come sussidiarietà orizzontale, consente alle istituzioni titolari di tali funzioni di perseguire l’interesse generale non più da sole, ma insieme con i cittadini, singoli e associati.
Oltre certa retorica “democratica”, oggi soffocata dalla disaffezione al voto, la partecipazione  è il concetto chiave su cui può essere giocata la partita dell’astensionismo,  in quanto assunzione di responsabilità del cittadino rispetto alla propria comunità. Dire  “partecipazione” non significa perciò scambiare il mezzo con il fine, quanto prendere atto della debolezza delle procedure ordinarie della democrazia a base  elettiva, a fronte di forme organiche di integrazione tra il cittadino-elettore e le istituzioni democratiche.
Secondo Giovanni Sartori (Democrazia. Cosa è, 1993) “il partecipazionismo degli anni sessanta è soprattutto e quasi soltanto una esasperazione attivistica del partecipare. L’appello a ‘più partecipare’ è meritorio; ma gonfiato a dismisura, quasi come se tutta la democrazia fosse risolvibile nella partecipazione, è una ricaduta infantile. Ed è anche una ricaduta pericolosa, ché ci propone un cittadino che vive per servire la democrazia (in luogo della democrazia che esiste per servire il cittadino)”.
L’invito di fondo  è perciò ritrovare una volontà autenticamente “ricostruttiva” sul tema,  spingendo – al di là delle polemiche contingenti – a riannodare il confronto sull’essenza della modernità e sui meccanismi di un’ “intermediazione”  tutta da riconsiderare e ricostruire. Magari criticando la debolezza degli attuali strumenti partecipativi, immaginandone di nuovi, più diretti, concreti e veramente capaci di ricucire gli strappi di una società lacerata che chiede di “ricomporsi” (a partire dal ruolo della famiglia, dalle aziende e dai territori, per arrivare alle categorie produttive e alla più vasta dimensione nazionale)  e che ha perciò bisogno di ritrovare i luoghi spirituali e fisici  della sua identità.
Senza partire dai fondamentali, dal sistema rappresentativo, e da una nuova stagione autenticamente “partecipativa” non si uscirà dalla crisi. E a forza di galleggiare, senza una rotta,  il rischio è l’affondamento.

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di Mario Bozzi Sentieri - 1 Dicembre 2025