L'intervista
«Marinetti vive e lotta insieme a noi. L’Italia gli deve più di quanto creda». Parla Giordano Bruno Guerri
Nel libro "Audacia, Ribellione, Velocità" lo storico racconta le «vite strabilianti dei futuristi italiani». Smontando tanti pregiudizi, dal rapporto col fascismo alla visione della donna. E al Secolo svela cosa li lega alla banana di Cattelan
Bastano tre parole per definire un fenomeno? Se si tratta del movimento fondato da Filippo Tommaso Marinetti, certamente. Anzi, non potrebbe essere altrimenti. Audacia, Ribellione, Velocità. Questo è il titolo, infatti, dell’ultima fatica che lo storico e giornalista Giordano Bruno Guerri ha dedicato al Futurismo. Per essere più precisi, il libro è dedicato alle «vite strabilianti dei futuristi italiani». Un volume, per i tipi di Rizzoli, da leggere e soprattutto da guardare per via delle grandi illustrazioni che, da sole, valgono il “prezzo del biglietto”. Dietro la suggestiva operazione editoriale c’è un obiettivo culturale ben preciso, con tanto di sorpresa in calce. Ce lo illustra lo stesso autore. Eccolo.
Giordano Bruno Guerri, lei ha scritto molto su Marinetti e, più in generale, sulla prima metà dell’inquieto Novecento italiano. Quali sono le ragioni che la portano a occuparsi ancora di Futurismo?
«Sono le ragioni dello storico. Quelle che da sempre animano i miei libri: mettere nella giusta luce un fenomeno o un personaggio che, a mio avviso, sono stati ricordati o tramandati in modo sbagliato, impreciso o comunque da correggere».
Per il Futurismo è ancora così?
«Questo libro vuole rendere giustizia alla loro opera straordinaria e riequilibrare alcuni giudizi. I futuristi rappresentano un pezzo di storia imprescindibile. Sono nostri contemporanei: hanno previsto il futuro e hanno dominato le avanguardie fino ai nostri giorni, tanto da poter dire che vivono e lottano insieme a noi».
Uno dei pregiudizi più persistenti riguarda il rapporto tra i futuristi e il Fascismo, è così?
«Molti futuristi furono certamente fascisti. È vero, il regime entusiasmò una quantità enorme di italiani, ma non tollerava le contraddizioni. Ed entro questa situazione forzata, si arrivò inevitabilmente a dei compromessi. Tuttavia, bisogna guardare ai risultati finali, anche alle opere rese possibili dalla volontà di costruzione e unificazione del Fascismo».
Può farci un esempio?
«Certamente. Proprio in questi giorni abbiamo riso e pianto per la testata che un assessore ha dato alla vetrata di Sironi. Ebbene, quella vetrata fu voluta da Giuseppe Bottai per il Ministero delle Corporazioni. Questo intendo per lascito. E non è che un dettaglio: la cosa più importante è un’altra».
Quale?
«Che in Italia non vi fu mai una guerra alla cosiddetta arte degenerata. Non abbiamo conosciuto ciò che accadde nella Germania di Hitler o nell’Unione Sovietica di Stalin, dove si pretendevano solo ritratti di contadini e operai dalle braccia muscolose. Il Futurismo fu un antidoto: contribuì in modo determinante alla libertà di espressione artistica nel nostro Paese».
Come devono essere lette le scelte di Marinetti?
«Il mio giudizio su di lui è dichiarato sin dalle prime pagine: è un genio, uno strepitoso genio, cui rendere onore. Un uomo che però ha sbagliato a sostenere che la parola patria sia più importante della parola libertà. Un concetto che personalmente non condivido».
Se Marinetti fu un genio, come definire gli altri futuristi?
«Personalità certamente geniali. Pensiamo a Boccioni, che senza l’incontro con Marinetti sarebbe probabilmente morto in guerra da perfetto sconosciuto. Pensiamo ad Antonio Sant’Elia, morto a 28 anni, i cui disegni anticiparono l’architettura successiva e influenzarono la cinematografia. E pensiamo a Fortunato Depero, che inventò la pubblicità moderna ben prima dell’avvento della televisione».
Un altro pregiudizio vede nel Futurismo una corrente di fanatici bellicisti, è davvero così?
«Insegno sempre ai miei studenti che non bisogna guardare al passato con le lenti del presente, perché si rischia di non capirci nulla. Nel 1909 e nel 1914, l’idea di guerra era molto diffusa, ma si trattava ancora di un’immagine romantica, ottocentesca: cavalli, sciabole, eroismo. Noi invece conosciamo i macelli della Prima guerra mondiale, le carneficine della Seconda e la bomba atomica. Insomma, quando Marinetti e Boccioni videro gli effetti reali del conflitto, cambiarono idea. Tant’è che, nel 1918, nel manifesto politico del Futurismo proposero l’abolizione del servizio di leva: decenni prima che ciò accadesse davvero».
E il rapporto tra Futurismo e donne?
«Se ci fermassimo al Manifesto otterremmo una lettura superficiale. È vero: vi si parla del disprezzo della donna, ma della donna intesa come angelo del focolare, rinchiusa in casa ad allevare bambini, sottoposta al marito, al padre, ai fratelli. I futuristi disprezzavano anche l’immagine della donna destinata alle carezze e ai profumi. Volevano invece una donna autonoma, indipendente, lavoratrice, capace di godere della propria libertà. In altre parole, ciò che intendiamo noi oggi. Non a caso, furono moltissime le futuriste, anche di grande rilievo».
Si riferisce, ad esempio, alla pittrice Benedetta Cappa, moglie di Marinetti?
«Certamente. Fu una donna capace di anticipare e superare molti contenuti del femminismo degli anni Settanta. E non solo lei: penso anche a Valentine de Saint-Point, che ebbe l’ardire di scrivere il Manifesto della Lussuria».
Lei sostiene – e lo scrive – che i futuristi andrebbero oggi matti per l’Intelligenza artificiale. È una provocazione?
«Siamo noi ad averne timore, come accade per ogni grande novità. Loro, invece, ne avrebbero fatto largo uso. Per Bacco! Anche un recente articolo del Guardian parla dei futuristi come anticipatori dell’AI. Posso solo dire che, alla fine del libro, c’è un dialogo tra me e Marinetti ottenuto grazie all’Intelligenza artificiale, capace di entrare nei suoi panni e di usare il suo linguaggio e i suoi concetti. Straordinario. Lo considero un omaggio a Effetì».
Concludiamo parlando del mondo dell’arte, spesso schiacciato tra la ricerca continua della provocazione e la tentazione del conformismo. Oggi tollererebbe una nuova ondata futurista?
«Altroché se sarebbe tollerata. Magari ci fosse un nuovo Marinetti a dirci cosa accadrà tra cent’anni. Del resto, senza il Futurismo o il “Cesso” di Duchamp non sarebbe stato possibile arrivare alla Banana di Cattelan. Possiamo riderne, ma la provocazione è rispettabile, come è rispettabile tutta l’arte, persino quella brutta. Certo, la speranza è che diventi anche bella. Ma gli scarti si eliminano da soli».
Sarebbe una selezione naturale?
«Assolutamente».