Radici e futuro
L’Europa ha un problema e non serviva Trump per capirlo: se non ritrova la sua identità non sarà più Europa
Per rispondere alle sfide di questo tempo serve ripartire da una domanda: cosa significa europeo? La risposta non sta nell'economia e nemmeno nella politica, ma nella storia e nell'identità. Bisogna ripartire da qui per non rischiare di perdersi del tutto
Molto prima, esattamente 107 anni prima delle recenti affermazioni di Trump, Oswald Spengler (1880-1936) pubblicò l’opera Il tramonto dell’Occidente. Era il 1918. Stava per finire la tragica Prima guerra mondiale, di cui furono conseguenza i mari di sangue della Seconda; e la duplice occupazione (a vario titolo!) sovietica e americana. Vero; ma Spengler non si cura di politica contingente, bensì diremmo di metapolitica e metastoria, andando alle radici antropologiche della crisi; e, riecheggiando Giovan Battista Vico (1668-1744), e non dimenticando autori antichi, afferma che ogni civiltà, come un organismo vivente, percorre un ciclo, fino alla decadenza. E la decadenza, osservano sia il Vico sia Spengler, non è un fatto di economia e di politica, è un fatto spirituale, è la negazione dei valori spirituali. Anzi, vichianamente, la decadenza morale convive con il progresso tecnologico e con un conseguente benessere materiale; e il benessere ne è una causa.
I primi e fondamentali valori spirituali in crisi sono, ovviamente, quelli di una religione; da intendere, questa parola, nel senso più ovvio, direi più banale, e senza arrampicate sui muri lisci: la fede nella Divinità, della Cui esistenza si debba essere certi. Ed è altrettanto banale e ovvio che la fede nella Divinità cessa esattamente quando si ragiona e si cercano razionali dimostrazioni. Tranquilli tutti: se è vero che ogni religione svanirebbe in dieci minuti di dubbi, ogni filosofia non regge manco trenta secondi! E anche la scienza non sempre se la passa tanto bene, oggi tra dichiarazioni di riscaldamento e annunzi d’imminente… ma sì, glaciazione. Il percorso dei dubbi è dubitare all’inizio, poi, di fronte alle difficoltà mentali, arrendersi e rinunciare anche al dubbio e al pensiero in generale, accontentandosi di una cultura piccolissimo borghese fatta di luoghi comuni da sceneggiato televisivo e politicamente corretto.
I luoghi comuni si esprimono a loro volta con un linguaggio, verbale e non, altrettanto piccolo e fatto di luoghi comuni; linguaggio elementare e povero, donde la miseria della letteratura e dell’arte; e l’assenza di simboli e di riti. Si confronti una cattedrale del barbaro Medioevo con un odierno civilissimo scatolame di cemento! Chi fa e patisce cose del genere? L’individuo monade solitaria, la persona isolata giudice del mondo e di se stessa da sola, e quindi privo di ogni riferimento di appartenenza. Al massimo si trova in una “società”, cioè individui accostati (Zivilisation); mai in una comunità (Kultur) in cui identificarsi, e che si riconosca essere precedente la nascita di ognuno, e che ci sarà dopo la morte personale.
Effettuata la diagnosi, e sperando in un rimedio, appare occorra qualcosa di simile a quella che si chiamò una rivoluzione conservatrice; rivoluzione da intendere, etimologicamente, come ritorno alle origini. È un tema che percorre tutta la storia culturale del Novecento, e non oso nemmeno elencarne i protagonisti, rinviando alla ricchissima pubblicistica teoretica.
Più umilmente, chiedo a me stesso che cosa si può concretamente fare per arrestare la decadenza. Intanto, se il problema è anche lo straniero, recuperare la capacità di assimilare. Il continente Europa ha sempre ricevuto immigrazioni, e porto l’esempio di un popolo che è europeo più di tantissimi altri, e di cultura latina e cattolica: gli ungheresi. Ebbene, erano un’orda di origine asiatica e di lingua uralo-altaica affine alla turca, parlata tuttora: finché re santo Stefano (997-1038) non li convertì alla Fede e all’Europa e al latino. Ancora esempi: i Normanni fondarono il Regno Meridionale; Napoleone Buonaparte era italianissimo di sangue, e francese per scelta politica; l’Impero inglese delle Indie lo fondò Beniamino Disraeli, ebreo di Livorno… Ma era scattato un processo culturale che oggi l’Europa è del tutto incapace di compiere, anzi per buonismo si rifiuta di farlo: l’assimilazione. Assimilazione significa che l’eventuale (eventuale!) straniero deve diventare europeo.
Ma cosa significa, europeo? Diciamo francamente che quello classico e grecoromano non fu un mondo europeo ma un mondo del Mediterraneo, e considerava il restante solo periferie; e che l’Europa come la concepiamo noi è quella che nasce con i Regni romano-barbarici, quindi cristiana e di lingua ufficiale latina, convivente però con le lingue nazionali di ceppo neolatino, germanico e slavo. La cultura europea è sì quella derivata da Grecia e Roma, però reinterpretata in senso cristiano e con molti fondamentali apporti; mentre sotto il profilo antropologico, le comunità europee mostrano nei secoli lo stigma delle tribù germaniche, che è la tripartizione indoeuropea di sacerdoti, guerrieri, lavoratori; finché le due anime non si amalgamarono. Esiste dunque, storicamente, una cultura europea; e chi con la cultura europea s’identifica, può, anzi deve rispettare le culture altrui, alcune delle quali più antiche e variegate: ma le sentirà sempre estranee e intrinsecamente diverse. Oggi questa idea dell’Europa è dimenticata; o peggio, è condannata da una cultura ufficialmente negativa; senza però che, almeno a oggi, ne appaia un’altra a difesa ed esaltazione dell’identità.
È questa identità dell’Europa che appare in pericolo; e che lo dica un americano di origine scozzese, o un europeo nato in Calabria con probabili avi ausoni, itali, greci, bruzi, romani, longobardi, normanni eccetera, è del tutto indifferente; e “bisogna che gli scandali avvengano”, dice il Vangelo. L’Europa rischia di non essere l’Europa, non tanto per la presenza fisica di estranei, quanto perché li lascia culturalmente estranei; e, come accade, a volte ostili.
Come qualche benevolo lettore avrà notato, in queste poche righe non vi è alcun cenno alle attuali istituzioni dell’Europa più o meno sedicente Unita; le cui debolezze sono palesi. Diciamo appena che, se «natura delle cose è il loro nascimento» (ancora il Vico), l’Ue è rimasta al 1957: un’associazione con finalità economiche, e senza una dimensione spirituale e una qualsiasi appartenenza. Non sono le istituzioni, nemmeno se rinnovate, a fare una cultura; se mai, è la cultura, una nuova e antica cultura europea, che pretenderebbe, se ci sarà, nuove istituzioni. E, ovviamente, nuovi tipi umani dagli attuali e dai burocrati dei tappi, e che non si sa da dove siano spuntati: non i tappi, i burocrati!