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Paola Concia

L'intervista

«Sulla giustizia il Pd insegue l’Anm e tradisce se stesso. I diritti? C’è chi li usa per fare business». Parla Paola Concia

Conversazione a tutto campo con l'attivista ed ex deputata dem, che avverte la sinistra anche sull'infatuazione per Mamdani: «Bel programma, ma potrebbe rivelarsi concreto come chi in Italia prometteva di abolire la povertà... »

Politica - di Dalila Di Dio - 9 Novembre 2025 alle 07:00

Femminista di lungo corso, deputata del Pd nella XVI legislatura, firmataria di proposte di legge contro l’omofobia, antesignane del Ddl Zan che pure ha criticato sotto alcuni aspetti: il tratto distintivo di Anna Paola Concia, abruzzese che oggi vive Francoforte, è senz’altro l’onestà intellettuale che l’ha portata, negli anni, a guadagnarsi non pochi attacchi anche dalla sua parte politica. Di recente, per la casa editrice Liberilibri, ha curato con Lucetta Scaraffia Quel che resta del femminismo, una raccolta di saggi su violenza sulle donne, trasformazione del linguaggio, sopravvivenza del patriarcato. Sulla riforma della Giustizia, in dissenso con la posizione ufficiale del Pd, appoggia le ragioni del sì al referendum ed è tra i promotori del Comitato costituito in seno alla Fondazione Einaudi.

Lei è impegnata in politica dagli anni ’80, il suo concetto di militanza, probabilmente, è molto diverso da quello di molti giovani che oggi pensano che la politica si possa fare attraverso lo schermo di un telefonino. Anche le manifestazioni di piazza, in fondo, spesso sono organizzate a uso e consumo dei social. Si trova a suo agio di fronte a tutto questo o rimpiange un po’ la militanza alla “vecchia maniera”?

«Ho trascorso 30 anni in un solo partito, rimanendo fedele a me stessa negli anni, e ho potuto vivere gli inizi della mia militanza in un contesto in cui la politica era, pur tra fortissime contrapposizioni, confronto anche aspro ma leale. L’ultima legislatura in cui è stato possibile portare avanti un dialogo proficuo tra parti contrapposte credo sia stata proprio quella in cui ero deputata, durante la quale abbiamo provato a intavolare un confronto sui temi anche con chi la pensava diversamente, a volte con successo a volte meno. Oggi il confronto è diverso come lo sono le regole e le dinamiche del web. Probabilmente tutto è cambiato con l’avvento dei grillini, nel 2013: un partito che è nato e si è mosso completamente online e che ha imposto un nuovo approccio e un nuovo linguaggio a tutti gli altri partiti, trascinandoli su un terreno in cui il confronto è quasi impossibile e la polarizzazione è estrema. Oggi anche i partiti non sono più interessati ad approfondire le questioni, ad entrare nel merito, preferendo lo scontro che polarizza l’elettorato e non richiede di affrontare i grandi temi come, invece, andrebbe fatto. Trovare un compromesso viene visto come una debolezza; il messaggio che arriva all’elettorato è che si sta cedendo qualcosa al “nemico politico” e questo sarebbe controproducente a livello elettorale. Allora ci si arrocca sulle posizioni, prediligendo la propaganda al dialogo, la polarizzazione alla ricerca di soluzioni concrete ai problemi dei cittadini».

Le recenti vicende che hanno interessato Carlotta Vagnoli, Valeria Fonte e Benedetta Sabene, influencer femministe, con la pubblicazione delle chat che ne hanno svelato un lato particolarmente violento e triviale, hanno sorpreso i più, ma non lei, donna con una lunga storia di battaglie alle spalle portate avanti con serietà e impegno concreto. Come è possibile che questo femminismo, che lei stessa ha definito predatorio, faccia così tanta presa?

«Queste influencer, non solo le tre protagoniste della vicenda delle chat pubblicate di recente, si inseriscono nel contesto di cui sopra, in cui il dialogo e il confronto sono volutamente accantonati in favore della propaganda. Sono portatrici di un metodo sicuramente efficace nel contesto attuale, ma che rappresenta la morte del confronto politico come lo avevamo conosciuto fino a qualche tempo fa. Questo pseudofemminismo viene da lontano e attecchisce grazie a un sistema che coccola e foraggia questi personaggi. Parlo dei media, in generale e delle case editrici e anche di certa politica. Come si sia arrivati a questo punto, per me è abbastanza chiaro. Il problema non è la cultura woke, quella delle origini a cui anch’io in qualche modo appartengo, come donna e come lesbica che per forza di cose ha dovuto tenere sempre alta l’attenzione sulla difesa dei propri diritti. Il punto di rottura è arrivato quando quella cultura è mutata in estremismo woke, è diventata una trappola identitaria in cui ognuno è portatore di un proprio interesse specifico, talvolta anche in conflitto con quello di altre minoranze, portando alle estreme conseguenze la polarizzazione di cui parlavo prima. Le signore di cui abbiamo letto le chat sono lo strumento principale di questo nuovo modo di alimentare lo scontro politico, eppure, nonostante molti di noi avessero chiaro cosa ci fosse dietro questo modo di operare, è stato loro lasciato molto spazio di azione proprio nella prospettiva di alimentare quello scontro politico di cui ormai si nutre il dibattito pubblico. Il metodo è: censura, gogna, emarginazione, esclusione. È la fine della coesione sociale, e questo è un problema per tutta la politica».

È lecito pensare che, nella prospettiva degli attivisti del web, le battaglie per i diritti siano un business come un altro? Raggiunto un certo numero di followers, spuntano libri, spettacoli teatrali, merchandising e diventa chiaro come il vero obiettivo sia monetizzare.

«Sì, è lecito e mi pare abbastanza evidente se si osserva l’evolversi di certe “carriere”. A un certo punto si è capito che esporsi su certi temi, a prescindere da una vera e sincera adesione autentica, paga e paga molto bene. Gli esempi sono tantissimi e il modus operandi è quasi sempre lo stesso».

Una femminista “universalista” come si è recentemente autodefinita lei, come vive l’invasione di campo di un certo tipo di attivismo che nei fatti si rivela inutile se non addirittura dannoso per la causa?

«La battaglia che porto avanti oggi è quella di riconquistare lo spazio pubblico di un pensiero che vada oltre la polarizzazione selvaggia e che consenta di tornare al confronto sui temi e sui valori: sono aperta al dialogo con chiunque perché sono in grado di sostenere le mie idee con fermezza, chiunque sia l’interlocutore, senza avere paura delle contaminazioni, che possono accadere, ma sempre in un contesto di rispetto reciproco. Con rispetto, appunto, ascoltando le ragioni dell’altro: il confronto accende il pensiero. Se oggi fossi parlamentare, piazzerei una tenda davanti all’ufficio della ministra Roccella. Gliel’ho anche detto, starei lì in attesa di udienza e non le darei tregua sui temi che mi stanno a cuore, perché credo che la lotta politica vada condotta in questo modo, fuori dagli slogan e dalla propaganda, puntando alle soluzioni concrete. Il metodo più efficace per me è sempre quello che porta a dei risultati. Le battaglie di principio possono essere molto affascinanti ma se alla fine non aiutano concretamente a risolvere i problemi delle persone, sono totalmente inutili.

Prendiamo il Ddl Zan, una proposta di legge su cui avevo delle perplessità che ho espresso apertamente e per questo sono stata esposta alla gogna dalla mia parte politica: su quel testo era possibile una mediazione, una soluzione condivisa che avrebbe portato benefici concreti a molte persone che hanno bisogno di risposte, non di slogan. In quel frangente, però, evidentemente sono state fatte altre valutazioni, si è ritenuto che, essendo a fine legislatura, fosse più importante capitalizzare in termini di consenso elettorale una sconfitta, piuttosto che cedere a un compromesso che avrebbe consentito a tutta la comunità Lgbt di portare a casa una vittoria. Il Ddl Zan è stato in qualche modo immolato sull’altare di quella polarizzazione di cui parlavo poc’anzi, per tornaconto politico, a discapito della comunità che si sosteneva di voler proteggere. Ecco, sono di altro avviso, per me la politica deve offrire soluzioni e per farlo occorre condivisione e dialogo. D’altro canto, il centrodestra in quel frangente è stato ben felice di vedere bocciata una legge che non aveva proposto e di cui non condivideva l’impianto. Ma attenzione, e lo dico al centrodestra, il problema delle discriminazioni è rimasto intatto e anche il centrodestra se ne deve fare carico. Il quadro oggi è: polarizzazione sui diritti civili, zero risultati».

La sinistra sembra aver perso la bussola, fagocitata da ideologie che poggiano più su slogan che su una vera filosofia. Dal transfemminismo, al woke, alla giustizia, sembra che le scelte di campo del mondo progressista guidato da Schlein non siano mai frutto di una vera riflessione sui temi, ma di un atteggiamento oppositivo a tutto ciò che proviene dal mondo conservatore. Ha senso criminalizzare “il nemico politico” e con esso milioni di cittadini che lo sostengono?

«È evidente che la strada intrapresa dal Pd sia quella dell’opposizione ad ogni costo e su ogni tema. Anche un orologio rotto segna l’ora giusta due volte al giorno, eppure l’opposizione non è in grado di convergere con le posizioni del governo su nulla. Questo è il segnale di una certa politica che, torno a ripeterlo, forse giova dal punto di vista comunicativo, ma non offre risposte alle persone. È molto semplice dire di no a tutto, ma dall’altra parte chi governa, a mio parere, deve necessariamente aprirsi al dialogo, ma deve avere davanti un interlocutore disposto a confrontarsi e a cercare soluzioni comuni almeno sui grandi temi».

Su molti temi la sinistra accampa una sorta di monopolio: dalle battaglie per le donne e ai diritti civili, si pretende che le uniche proposte ricevibili siano quelle progressiste. L’accusa che Elly Schlein muove più spesso a Giorgia Meloni è di essere una leader donna ma non femminista: è possibile che la segretaria del principale partito di opposizione non riesca a concepire che possa esistere un’altra visione di femminismo e diritti civili, non per forza coincidente con quella del mondo woke al quale lei si è consegnata ormai completamente?

«Nessuno può arrogarsi il diritto di distribuire patenti di femminismo: il mio femminismo, ad esempio, non è quello di Giorgia Meloni ma neppure quello di Elly Schlein. Su molti temi trovo che le posizioni di certa sinistra siano così estreme da danneggiare la causa delle minoranze. Io, ad esempio, ho profondamente a cuore la questione delle persone transessuali, ma non penso che la soluzione sia quella di somministrare ai giovanissimi i bloccanti della pubertà, né di insistere sulla partecipazione delle persone trans alle competizioni femminili o continuare a sostenere che la loro dignità passi per l’invasione di spazi che appartengono alle donne, giungendo al paradosso di dover parlare di “persone che mestruano” o “persone con utero”, cancellando le donne per includere le persone trans. Il mio motto è: aggiungere senza escludere. Tutto questo non giova alla causa delle persone comuni con disforia di genere.

Queste persone, ogni giorno, fanno i conti con problemi molto più pratici, ad esempio trovare un lavoro, pagare le cure mediche: certi estremismi non solo non risolvono questi problemi ma nuocciono alle loro battaglie, perché alimentano l’ostilità dell’opinione pubblica nei loro confronti. Allora c’è da domandarsi se chi si intesta certe lotte abbia davvero a cuore il destino di queste persone o stia soltanto piantando la propria bandierina ideologica. Quanto a Giorgia Meloni, penso che sul terreno dei diritti delle donne non si siano fatti passi indietro come sostiene Schlein, ma non si sono neanche fatti passi avanti. E torno sulla polarizzazione: con essa rimane tutto fermo, immobile, come si vede. Benvenga l’impegno contro la violenza sulle donne; alcuni provvedimenti sono interessanti, ma resta molto da fare. Il gender gap, per esempio, un welfare che deve permettere a coppie giovani che vogliono avere figli di essere aiutate, un nuovo modello di redistribuzione dei compiti familiari paritario che non danneggino sempre le donne. Qualche giorno fa in treno in Italia, avevo davanti un giovane uomo in viaggio di lavoro, che spiegava all’interlocutore il dosaggio del biberon. Mi ha spiegato che sua moglie per fortuna è tornata a lavorare e lui si occupa di tutto. Ho esclamato “finalmente ci sono uomini nuovi!”. Lui mi ha risposto “assolutamente sì!”. Anche sui temi che riguardano la comunità Lgbt c’è molto da fare, apprezzo molto le aperture di Forza Italia e mi piacerebbe che Lega e Fratelli d’Italia convergessero su posizioni più liberali, ricordando che oltre le ideologie si parla di persone e dei loro problemi».

Il Pd, nel quale lei ha militato, parla spesso orgogliosamente di pluralismo interno in contrapposizione ad altri partiti che appaiono monolitici nelle loro posizioni. Tuttavia, a ben vedere, chi non sposa completamente la linea prima o poi viene ostracizzato: è successo con il Ddl Zan e probabilmente succederà adesso con la riforma della giustizia. C’è un problema con il dissenso a sinistra?

«Un partito democratico per sua natura è pluralista con posizioni diverse che necessitano una sintesi. Ma non può chiamarsi sintesi se chi dissente senza potersi confrontare deve piegarsi alla posizioni della maggioranza pena l’ostracismo. Veniamo alla separazione delle carriere: personalmente sono rimasta fedele a ciò che pensavo, perché la sinistra è sempre stata favorevole a questa riforma, sono altri a sinistra che hanno cambiato idea. Sono convinta che su questo tema in particolare, ci sia una fronda che non condivide le ragioni del no e che rimane silenziosa per paura di ostracismi o perché convinta che una sconfitta al referendum possa far cadere il governo di Giorgia Meloni. Certo è che chi si espone in dissenso, creando imbarazzi alla dirigenza di turno, non ha vita facile».

Lei ha aderito al comitato per il Sì al referendum costituzionale sulla riforma Nordio, nonostante la posizione ufficiale di gran parte della sinistra sia diversa. Una scelta di grande onestà intellettuale, che va oltre gli schieramenti per sposare il merito delle questioni. Perché questa scelta di campo?

«La mia è una scelta di campo naturale perché questo è il campo nel quale sono sempre stata e in ottima compagnia: sono cofondatrice del comitato #SìSepara della Fondazione Einaudi con una schiera di giuristi, giornalisti ed esponenti della società civile che provengono da storie politiche diverse, ma tutti mossi dalla volontà di portare a compimento una battaglia che è cominciata con la riforma Vassalli nel 1988. Il Pd, che oggi si dice contrario, portando avanti le ragioni dell’Anm, tradisce se stesso perché quella della separazione delle carriere è una battaglia di sinistra che la destra ha copiato ed è riuscita a portare a compimento. Il no di oggi è puramente politico e poggia su motivazioni assolutamente false: chi sostiene che la riforma minerebbe l’indipendenza della magistratura è in malafede perché l’articolo 104 della Costituzione rimane immutato. Rispetto ad altri Paesi in cui il pm è effettivamente assoggettato al controllo dell’esecutivo, la riforma Nordio è molto soft e mantiene intatte tutte le garanzie di autonomia e indipendenza della magistratura. Piuttosto, trovo sorprendente l’attivismo dell’Anm che arriva a costituire il comitato per il no addirittura dentro la Corte di Cassazione: è qualcosa che in Germania, dove vivo, sarebbe inconcepibile e francamente la trovo assolutamente fuori da ogni ragionevolezza. Bene fa Giorgia Meloni a non personalizzare il referendum: chi spera che una vittoria del no serva a buttare giù il suo governo – memore di quanto accadde nel 2016 a Matteo Renzi che lo personalizzò sbagliando – ha evidentemente fatto male i conti. Un consiglio non richiesto alla premier: tenga a bada i suoi e permetta a chi sostiene il sì di essere sganciato dalle dispute politiche che a noi poco importano».

Quale crede che debba essere la strategia per arrivare ai cittadini con un messaggio chiaro e comprensibile?

«Non politicizzare e non polarizzare. La riforma va spiegata ai cittadini in maniera semplice e va spiegato loro che questa riforma serve a garantire un processo giusto a tutti. Non è una questione di appartenenza politica, il comitato per il sì, come dicevo, unisce personalità con esperienze, trascorsi politici e professionali diversissimi, che si sono trovate d’accordo su una battaglia sulla giustizia. La trasversalità è la chiave. Ce lo insegna l’esperienza: i due referendum che hanno avuto grande successo nella storia referendaria italiana, sono quelli su aborto e divorzio in cui si è andati oltre gli schieramenti politici e le ideologie. Anche in questo caso la trasversalità è fondamentale.

Una domanda di strettissima attualità: cosa pensa dell’esultanza di Schlein e di tutto il Pd per la vittoria di Mamdani, neo sindaco di New York?

«Non mi sorprende: a sinistra siamo sempre stati affascinati dal papa straniero, è un atteggiamento tipico di un certo progressismo. Mamdani è un socialista che ha proposto una serie di cose condivisibili: chi di noi non vorrebbe più welfare e aiuti per le fasce più fragili della società? Il punto ora è realizzare quelle promesse e forse Mamdani è andato un po’ oltre quando si è arrogato poteri – come quello di tassare maggiormente i più ricchi – che, a quanto pare, non ha. Lo vedremo alla prova dei fatti, ma il dubbio è che possa rivelarsi concreto quanto coloro che, in Italia, qualche anno fa promettevano che avrebbero abolito la povertà. È oggettivo che ha attratto tanto voto giovanile, e questo è positivo. Attenzione però, il giochetto “Mamdani italiano” non funziona, e ce lo dice Antonio Monda che vive a New York e che ieri su Il Foglio in un bell’articolo afferma: “amici di sinistra io Zohran #Mamdani l’ho votato e mi sono pure emozionato durante il discorso di accettazione, ma se pensate di applicarne il modello alla nostra politica vi avviate a una cocente delusione”».

Se domani tornasse in Parlamento, quale sarebbe la sua prima proposta di legge?

«Vivo in Germania da undici anni anche se lavoro per l’Italia e sono spesso nel nostro Paese. Diciamo che i miei progetti anche futuri mi portano altrove, mi occupo di education a tempo pieno ed è un lavoro che mi affascina. Sono riuscita a realizzare tante cose fuori dal parlamento e fuori dalla politica. Ma stiamo al gioco: diciamo che ripartirei da dove ho lasciato. La mia prima proposta sarebbe sicuramente una legge contro l’omofobia e la transfobia. Niente di complicato o troppo articolato: per me la soluzione più semplice – e forse quella che potrebbe incontrare il consenso necessario – sarebbe introdurre l’aggravante di omofobia e transfobia tra le categorie tutelate dalla legge Mancino. Ma poi mi vorrei occupare di quello di cui mi occupo oggi: la scuola del futuro che ha bisogno di visioni».

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di Dalila Di Dio - 9 Novembre 2025