Compagni fuori dal mondo
Ricolfi asfalta la sinistra: “Difendono chi costa meno: migranti e minoranze Lgbt, ma dimenticano gli italiani”
La sentenza del sociologo: "I diritti civili costano poco, i diritti economici molto di più. Ridurre le tasse al ceto medio in modo percepibile ne costa decine di miliardi"
«La sinistra si preoccupa di immigrati e minoranze sessuali, ma non della classe media». Per Luca Ricolfi, sociologo e presidente della Fondazione Hume, è qui il nodo della distanza crescente tra la sinistra e il Paese reale. «Ai margini della vita politica», come ribadito ieri stesso dalla premier Giorgia Meloni. Non si tratta solo di un cambio di linguaggio, ma di una diversa gerarchia di priorità.
I diritti costano poco, la realtà molto di più
«Favorire l’accoglienza o proteggere le minoranze sessuali costa pochi miliardi. Ridurre le tasse al ceto medio in modo percepibile costa uno sproposito», spiega. «Se ne è accorto il governo, che ha varato sgravi onerosi per la finanza pubblica (3 miliardi) ma quasi impercettibili per i destinatari (circa 30 euro al mese)».
Secondo Ricolfi, i partiti progressisti hanno scelto cause sostenibili dal punto i vista finanziario, ma lontane dai problemi materiali della maggioranza. «I diritti civili costano poco, i diritti economici molto di più. È una questione di convenienza politica».
Il ceto medio che resiste
Alla domanda se il ceto medio esista ancora, Ricolfi risponde senza esitazione: «Sì, ma non c’è una definizione condivisa. La classica distinzione fra operai e impiegati si è dissolta e una parte del lavoro autonomo vive in condizioni precarie».Oggi, spiega, «gli impiegati sono circa sette milioni, i lavoratori autonomi cinque. Su ventiquattro milioni di occupati, un lavoratore su due appartiene al ceto medio classico, come mezzo secolo fa».
Una stabilità apparente che però nasconde un cambiamento: quella fascia di popolazione che un tempo garantiva coesione e crescita oggi vive con redditi stagnanti e prospettive ridotte.
La manovra e i suoi limiti
Sulle politiche economiche del governo, Ricolfi osserva che la manovra «non è esattamente rivolta alla fascia mediana dei redditi». Gli sgravi, spiega, «partono dai 28 mila euro e arrivano a 50 mila, cioè al 20% dei contribuenti. Non riguarda la parte più ampia del ceto medio, ma quella più alta».
L’effetto redistributivo è quindi parziale. «Gli sgravi sono costosi per la finanza pubblica ma quasi impercettibili per i destinatari: circa 30 euro al mese», sottolinea.
Il caso americano
Il successo del nuovo sindaco di New York, per il sociologo, offre una chiave di lettura utile anche all’Europa. «Ha parlato ai ceti popolari, alla working class, che si sente tradita dalle élite progressiste», dice.E aggiunge: «Ha smesso di usare il linguaggio astratto e fumoso dell’establishment. È molto diverso promettere “più inclusione” o dire “trasporti gratis e affitti bloccati”».
Un esempio, insomma, di come la sinistra abbia smarrito la capacità di rappresentare le istanze economiche e quotidiane delle classi medie e popolari. «I progressisti parlano di inclusione», osserva Ricolfi, «ma molti italiani chiedono solo di non essere dimenticati».
Le banche e la redistribuzione
Anche su un tema tradizionalmente divisivo come il contributo alle banche, Ricolfi si mostra pragmatico. «Da riformista dovrei essere contrario, ma in questo caso sono favorevole. Se si vuole redistribuire, partire da lì non è irragionevole, specie dopo anni molto floridi. Meglio questo che una patrimoniale sulle persone fisiche».
Un giudizio che indica come, al di là delle appartenenze politiche, il tema centrale resti quello della redistribuzione e del rapporto fra Stato e produzione.
Le nuove generazioni
Sul futuro, Ricolfi individua il problema principale nell’emigrazione dei giovani più qualificati. «Il punto non è che guadagnino poco, ma che i migliori decidano di partire. I millennial sono già nel mercato del lavoro, ma le vere novità arriveranno con la generazione Z e quella Alfa».
Per il sistema pensionistico, aggiunge, il rischio non è legato ai bassi redditi, ma alla struttura stessa della spesa pubblica. «In Italia tutto poggia sul primo pilastro, quello pubblico, che sottrae risorse a scuola e sanità. Lo sappiamo dal rapporto Onofri del 1997: le due criticità principali sono sempre le stesse, debito e pensioni».