L'intervista
«Quello dei bambini del bosco è un caso abnorme: lo Stato crea una rivalità con la famiglia autodeterminata». Parla Venanzoni
Il giurista riflette su cosa c'è dietro la decisione del Tribunale dei minori dell'Aquila: una sorta di ideologizzazione da parte dei servizi sociali, che rimanda allo Stato etico
«La parte concettualmente più preoccupante del provvedimento è quella tipicamente ispirata dai servizi sociali, quando parlano di questa deprivazione del confronto dei bambini come se fosse una sorta di mancanza di relazionalità». Queste le parole di Andrea Venanzoni, giurista e giornalista, al Secolo d’Italia sulla vicenda dei “bambini del bosco” di Palmoli, in provincia di Chieti. Le decisione di allontanare i piccoli dalle mura domestiche, secondo Venanzoni, è «un atto molto pesante e che io ritengo esorbitante da canoni di razionalità. Non ci sono ad oggi, anche leggendo i provvedimenti, degli elementi che lasciassero presagire malnutrizione o situazioni igienico-sanitarie al limite». In sostanza, il caso di cronaca dimostra che esiste «uno Stato occhiuto che a un certo punto vede la famiglia che si autodetermina come una sorta di rivale e concorrente».
Che idea si è fatto sulla vicenda?
«Il diritto minorile collegato ai servizi sociali è sempre molto delicato, perché entrano nello spazio giuridico delle considerazioni che purtroppo non sono giuridiche, riguardanti la sfera affettiva e quella psicologica. Il caso, visto dall’esterno, a me sembra abnorme nella decisione finale, ma soprattutto alla luce di altri fatti che hanno riguardato dinamiche di diritto minorile, di psicologi e di servizi sociali. In alcuni casi di anomia, quindi nelle situazioni di miseria e degrado, quei bambini vengono lasciati nel contesto familiare. Non parlo soltanto dei campi nomadi, ma anche di italiani che versano in condizioni di forte disagio, non soltanto sociale».
Parla di caso «abnorme». Per quello che emerso, non riscontra giustificazioni per la decisione del Tribunale dei minori?
«Nell’ultimo caso di cronaca parliamo di una soluzione drastica, che ha delle conseguenze sullo sviluppo dei bambini: questi vengono tolti dalle mura domestiche e affidati a una casa famiglia, con la nomina di un tutore che è un avvocato. Stiamo parlando di un atto molto pesante e secondo me esorbitante da canoni di razionalità. Non ci sono ad oggi, anche leggendo i provvedimenti, degli elementi che lasciassero presagire malnutrizione o situazioni igienico-sanitarie al limite».
Qual è la parte provvedimento che le suscita maggiore perplessità?
«La parte concettualmente più preoccupante del provvedimento è quella tipicamente ispirata dai servizi sociali, quando parlano di questa deprivazione del confronto dei bambini come se fosse una sorta di mancanza di relazionalità. Questi sono concetti un po’ scivolosi dal punto di vista della psicologia sociale e dei servizi sociali, perché si portano dietro una sorta di ideologizzazione che è abbastanza chiara: una sorta di Stato etico che ti costringe a doverti relazionare per forza con gli altri, come se poi questi tre bambini non si relazionassero anche tra di loro. Comunque queste persone non vivevano su un atollo completamente lontano dalla realtà e dunque mi pare che sia stato fatto un pastrocchio abbastanza evidente».
Il caso della famiglia investe anche il rapporto tra Stato e libertà individuali?
«Sì, ma anche del rapporto tra Stato e famiglia. C’è uno Stato occhiuto che vede la famiglia autodeterminata come una sorta di rivale e concorrente. In sostanza, esiste una sorta di riprovazione quasi morale nei confronti della famiglia ed è per questo che io parlo di un’ideologizzazione di una parte dei servizi sociali. Ribadisco: se siamo all’ipotesi della deprivazione del confronto con i coetanei, bisognerebbe togliere diversi ragazzini da case popolari occupate, famiglie disfunzionali e campi nomadi. Mi sembra che da questo punto di vista manchi una sorta di simmetria coerente nell’applicazione del criterio».