Gioventù come paravento
L’estetica del nuovo, la politica del vecchio: il Pd usa i ventenni per coprire vent’anni di fallimenti
Cronaca di un giovanilismo disperato, tra cravatte a fiorellini, correnti in guerra e under 25 gettati nella mischia per far sembrare nuovo ciò che nuovo non è
Nel Partito democratico la parola “giovani” è diventata un mantra salvifico, ripetuto con la convinzione che basti cambiare un volto in copertina per rinnovare il contenuto del libro. È il vizio antico di una classe dirigente che tenta di compensare la propria stanchezza politica con l’energia anagrafica di qualche ventenne. Un’operazione cosmetica, non culturale. Mediatica, non politica.
Il caso tosno e la logica del simbolo
La vicenda toscana lo dimostra. La nomina della ventitreenne Mia Bintou Diop a vicepresidente della Regione non è stata interpretata come un atto di coraggio, ma come il segno di un partito in difficoltà, costretto a brandire la gioventù come scudo per coprire tensioni territoriali, malumori interni e correnti in guerra. Gli amministratori esclusi, nonostante migliaia di preferenze, non criticano la giovane dirigente: criticano un metodo. Un metodo che da anni trasforma la giovinezza in strumento, non in investimento.
La narrazione ottimista di Taruffi
In mezzo alla tempesta, poi, spunta Igor Taruffi, responsabile organizzativo, che con cravatta nuova e narrazione rivista scandisce al Foglio il nuovo credo: “Le elezioni si vincono con i giovani”. La linea che propone è zuccherata di ottimismo: il Pd sarebbe “più credibile di Meloni”, il popolo di Prodi sarebbe “cambiato”, il partito sarebbe addirittura “il primo tra i giovani”. Affermazioni che sembrano descrivere un altro Paese, o almeno un’altra percezione della realtà. L’Italia reale racconta altro: generazioni che non si riconoscono nei rituali del centrosinistra; una fiducia che non si ricostruisce certo con la scelta di un volto giovane in un ruolo chiave; una distanza politica che non si colma con la retorica sulla “nuova classe dirigente”.
Il giovanilismo come sostituto del rinnovamento
Il punto non è la Diop, né gli altri volti lanciati negli anni come simboli di rinnovamento – da Mattia Santori a Schlein stessa. Il punto è la logica che li accomuna: un giovanilismo di emergenza, non una progettazione generazionale. La sinistra confonde il ringiovanimento delle figure con il rinnovamento delle idee e ripropone sempre lo stesso schema: i giovani diventano decorazione più che protagonisti, totem più che risorsa, slogan più che percorso. Una dinamica che non crea radicamento, non costruisce leadership, non produce prospettiva.
L’equilibrismo di Schlein
Nel frattempo Elly, oscillante tra moderazione e identità, aggiusta il vocabolario e la postura politica secondo le esigenze di equilibrio interno. Ma nessun aggiustamento lessicale – “stipendi” invece di “salari”, “sicurezza” invece di “sanità, ”toni più sobri, meno fronti aperti – potrà bastare senza una strategia che superi il marketing generazionale e affronti la sostanza: lavoro, mobilità sociale, istruzione, autonomia, rappresentanza reale. Tutto ciò che i giovani, quelli veri, considerano davvero rilevante.
Giovani chi?
Il Pd può continuare a definirsi il partito della gioventù. Può vantare di aver rimesso in ordine i conti e di aver raccolto migliaia di donazioni. Ma finché la giovinezza resterà un ornamento da esibire più che una responsabilità da costruire, il risultato non cambierà.
Il problema non è dei giovani. È di un partito che li nomina spesso e li ascolta poco, e che nel tentativo di apparire nuovo finisce per sembrare irrimediabilmente più vecchio.