Da Napoleone alla Palestina
Le guerre e le paci per finirle: una storia di confini labili ed espedienti necessari. Anche in questo 2025
Le paci sono fatti e non parole e belle intenzioni. I contendenti possono essere indotti, o decisamente costretti, a siglare dei patti. Spesso appaiono fragili, ma sono anche l'unica opzione. Come in Medio Oriente
Come le guerre e l’amore, anche le paci si fanno in due, persone o parti o coalizioni che siano. E come l’amore e le guerre, anche le paci appaiono spesso precarie. Pace, dal latino pax, radice pac, non significa amore ma patto. Le guerre, anche le più feroci, e con la rarissima eccezione della totale distruzione del nemico (tipo Carthago delenda), anche le più lunghe e sanguinose, prima o poi finiscono con un patto tra nemici; e capita anche che i nemici divengano amici; e anche viceversa.
Le guerre della rivoluzione francese, iniziate nel 1792, e condotte da Napoleone, s’interruppero con tante paci rivelatesi provvisorie; finché non accadde una cosa curiosa, che, sconfitto Napoleone in Russia e a Lipsia, occupata Parigi dal nemico, Talleyrand traghettò la vinta Francia tra i vincitori, utilizzando un espediente vecchio quanto il dio Marte: scaricando le colpe su Bonaparte; lo stesso, dopo Waterloo. Così la Francia non perse nessun territorio dei tempi di Luigi XVI, anzi guadagnò l’ecclesiastica Avignone; venne ufficialmente considerata Grande Potenza assieme a Gran Bretagna, Prussia, Austria e Russia; e contribuì a determinare l’equilibrio che, con qualche scossone, durò fino al 1914, un secolo. E quasi tutti, dopo il 1814/5, si misero d’impegno a dimenticare i vent’anni di guerra; e le implicazioni di alleanze provvisorie, incluso il secondo matrimonio di Napoleone, quello austriaco.
Se questo esempio apparisse un po’ troppo vecchio, veniamo alla Germania nazionalsocialista, la quale fino all’8 maggio 1945 combatté metro per metro contro le truppe sovietiche e angloamericane; e la mattina dopo se la prese con il solo Hitler, per altro defunto, e pochi altri gerarchi; e fu, secondo le occupazioni, liberale o comunista. Il Giappone divenne democratico per costituzione scritta di suo pugno da MacArthur. La questione dell’Italia è più ingarbugliata come tutta la nostra storia dai tempi del nonno del re Italo, e non ne parliamo qui.
Insomma, la guerra e la pace possono avere tra loro dei confini labili. Gli odi passano, o vengono sostituiti con altri odi; i morti vengono sublimati in Caduti; anche i ricordi, del resto, si sublimano, e ne deriva la poesia epica, più o meno rispondente al vero. Il fonogramma “Carri nemici fatta irruzione. Ariete accerchiata. Carri Ariete combattono”, vale l’intera Iliade; ed è il ricordo di una battaglia di 83 anni fa. Per i superstiti, però, la vita continua.
Proviamo ad applicare questo schema alle guerre ancora in atto in questo 2025. Quanto alla Palestina, e sperando che tutto perduri come è mentre scriviamo, e se la pace diverrà davvero pace, ci saranno molti e seri problemi da affrontare; sebbene non più gravi di molti altri dopoguerra, che pure trovarono soluzione. L’ultimo e più lieve dei problemi è la ricostruzione materiale di Gaza; il problema profondo è se la Striscia possa essere davvero vitale, e non dipendere da soccorsi altrui; quindi se avrà o meno una sua esistenza culturale, sociale, economica; e perciò, e dico perciò, politica. Tutte cose che certamente la guerra ha esacerbate, tuttavia mancavano, e pesantemente, anche prima.
Facile è proclamare a parole uno “Stato di Palestina”; ma uno Stato ha popolazione, territorio, forze armate, legge, moneta: e tali qualità non si dichiarano, bensì o ci sono o non ci sono. E se non ci sono di fatto, allora siamo di fronte a “repubbliche e principati che mai non furono”. Eppure non c’è soluzione se non in uno Stato di Palestina; Stato, non un campo profughi eternamente assistito; e da non del tutto e non sempre disinteressati benefattori.
Vorremmo poter dire qualcosa di simile per la guerra sul Don, che invece è ancora in atto. Se sono in atto anche trattative segrete, e se queste avranno buon esito, lo sapremo a suo tempo. Quello che è certo, è che le paci, come le guerre, sono fatti e non parole e belle intenzioni. I contendenti possono essere indotti, o decisamente costretti, alla pace: pace nel senso di patto. Se poi diverrà dimenticanza o persino riconciliazione… l’avvenire è sulle ginocchia degli dei; quelli dell’Olimpo, ma anche di qualche “praesens divus”, su questa Terra, che agisca adoperando una dosata forza; e con il meno possibile di alate parole. “Praesens” vuol dire presente, ma anche “prae”, che sta a capo, che comanda.