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Antonio Padellaro

L'intervista

«Gridare al pericolo fascista è grottesco. E sentire dire che la democrazia è in pericolo mi irrita». Parla Antonio Padellaro

Il giornalista smonta l’antifascismo immaginario degli intellettuali da salotto, bacchetta la sinistra sulla mancanza di visione e chiarisce che, no, in Italia non c'è una compressione della libertà di stampa

Politica - di Fernando Massimo Adonia - 2 Novembre 2025 alle 07:00

È sullo spauracchio del ritorno del fascismo che si stende una linea di frattura pericolosissima per il ceto politico-intellettuale della sinistra italiana. Non fosse altro perché investe in maniera diretta la questione della credibilità. E non su un punto di scarso valore civile. Sono le «facce di Ventotene» a tenere alta un’ossessione che però ha pochi riscontri nella realtà. La definizione è di Marco Travaglio e apre il pamphlet Antifascisti Immaginari (PaperFirst) scritto da Antonio Padellaro, lo storico direttore dell’Unità e del Fatto quotidiano. Giornalista sul cui pedigree c’è poco da indagare, anche per questo la sua riflessione va accolta con la massima attenzione. Un testo breve, tagliente e intelligente. Utile a scovare «i finti martiri, per fortuna agiati, paffuti e in ottima salute, che si atteggiano – per citare ancora Travaglio – a perseguitati di un immaginario regime, sempre pronti a essere deportati in qualche isola sperduta. Intellettuali, scrittori, e giornalisti che aspirano alla censura, al bavaglio, all’esilio e intanto continuano a troneggiare sulle maggiori tv, ma non riescono a levarsi dal volto quell’espressione sgomenta da novelli Matteotti della mutua». Uno spettacolo evidentemente insopportabile per Padellaro, tanto da metterci la faccia e sfidare apertamente un ceto che non l’ha presa proprio benissimo. E c’era da aspettarselo.

Direttore, facciamo un piccolo test: quante volte è stato intervistato finora dai giornali di orientamento progressista?

«Guardi, da maggio, da quando ho presentato il libro per la prima volta al Salone del Libro di Torino, ho partecipato a più di ventisei dibattiti in tutta Italia. È un numero importante che dice molto dell’interesse attorno al tema. Molti incontri si sono svolti in contesti di area progressista, segno che anche a sinistra esistono curiosità e voglia di confrontarsi. Il libro ha avuto un’ottima accoglienza, molte recensioni, e ha venduto bene, il che non era scontato per un saggio politico. Certo, le reazioni più diffidenti sono arrivate certamente dal mondo intellettuale. In fondo, non mi aspettavo entusiasmo a sinistra. Ma non mi lamento: non amo il vittimismo».

Gad Lerner, infatti, ha preso le distanze.

«Sì, con Lerner, che è un amico, ci siamo confrontati sulle pagine del Corriere della Sera. Lui non condivideva il tema del libro, ma lo stimo molto: abbiamo lavorato insieme e ci siamo promessi di parlarne di persona».

Al netto delle incomprensioni e delle polemiche, leggendolo, c’è da riconoscere che il suo libro è profondamente ancorato nella cultura dell’antifascismo storico. Dove nasce la distanza con gli intellò di oggi?

«Certamente. Il racconto parte dal Museo della Liberazione di via Tasso e segue la storia del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo: monarchico, fascista, poi eroe della Resistenza, ucciso alle Fosse Ardeatine. La sua parabola umana mostra quanto sia sbagliato dividere la storia d’Italia in buoni e cattivi. Dopo l’8 settembre molti italiani dovettero scegliere tra la propria fede politica e la propria coscienza. Anche nella mia famiglia ci furono scelte diverse: mio padre lavorò per la Repubblica Sociale, due miei zii aderirono alla Resistenza. La realtà non è mai manichea: è fatta di dubbi, contraddizioni, coraggio. È sbagliato leggere la storia in bianco e nero, un metodo che a me non piace».

Nel libro lei mette in evidenza la differenza antropologica tra chi la Resistenza l’ha fatta davvero e chi, oggi, stando seduto nei salotti televisivi, ha un atteggiamento snob e concede poco al dialogo e alla comprensione.

«Sì, è vero. Il mio auspicio è che in Italia possano convivere una destra e una sinistra repubblicane, entrambe legate alla Costituzione, ma capaci di rispettarsi reciprocamente, confrontandosi anche duramente, senza però delegittimarsi. Invece si è perso il senso del confronto. E un certo antifascismo è diventato più una postura identitaria che una convinzione civile».

Di recente, lei si è scagliato contro la scarsezza della classe dirigente del centrosinistra, che sceglie la scorciatoia dell’insulto perché preferisce mutuare il linguaggio dei social e dei loro fruitori. Le sue sono parole dure, non trova?

«Purtroppo, sì: il linguaggio dei social, con la sua semplificazione aggressiva, ha contaminato la politica, che ha perso il senso della misura. Gli insulti sessisti o le battute da bar, come quella della “ragazza pon pon” rivolta a Giorgia Meloni, non servono a nulla. Voglio essere pratico e dico che non portano voti e che, anzi, indeboliscono l’opposizione. Continuare a gridare al “pericolo fascista” ogni volta che il governo agisce è grottesco. La Meloni non ha anticipato nessuna marcia su Roma. Se la sinistra vuole tornare competitiva deve smettere di vivere di riflessi ideologici e proporre un progetto alternativo. Su questo i giornalisti, gli intellettuali, i politici dovrebbero riflettere seriamente».

È quello che ha sottolineato anche Romano Prodi a Otto e mezzo, parlando di una sinistra senza leadership, incapace a rappresentare una valida alternativa di governo. Condivide?

«Sì, è sotto gli occhi di tutti. Il fatto che le opposizioni non guadagnino consensi e che la popolarità di Giorgia Meloni resti stabile lo dimostrano. È un problema internazionale: lo vediamo con Trump negli Stati Uniti, con Milei in Argentina, con Le Pen in Francia. La destra cresce perché la sinistra non offre risposte concrete. Non basta dire “Meloni sbaglia tutto”, o ripetere gli slogan di rito come “venga a riferire in Parlamento”. Serve un pensiero nuovo, una visione. Che non c’è, evidentemente. Mi permetto di chiarire una cosa, per non lasciare spazio a dubbi».

Prego.

«Ho sempre votato per partiti di centrosinistra: laici, socialisti, poi Pd e anche 5 Stelle. Vorrei che quella parte politica tornasse a vincere, ma temo che, come disse Nanni Moretti ai tempi del berlusconismo, “con questi dirigenti non vinceremo mai”. Spero solo che quella frase non torni drammaticamente attuale».

Immagino che il dibattito sui rischi per la democrazia in Italia non la stia appassionando, giusto?

«Assolutamente no. E non credo che la destra voglia imporre la dittatura. La nostra è una democrazia solida, matura, con istituzioni radicate nella coscienza del Paese. Abbiamo un garante come Sergio Mattarella, un galantuomo che interpreta il suo ruolo con equilibrio e saggezza. Se il Parlamento funziona poco, bisogna parlarne con i parlamentari. Sulla libertà di stampa: certo, ci sono troppe querele temerarie e richieste di risarcimento esorbitanti, ma nessuna censura di Stato. Nessuno impone ai giornalisti cosa scrivere e in Italia c’è pluralismo, ci sono giornalisti con la schiena dritta. Ci sono anche giornalisti con la schiena meno dritta, ma c’è libertà. Sentire dire che “la democrazia è in pericolo” mi irrita: è un allarme infondato e spesso interessato».

Vorrei rievocare Pasolini, morto cinquant’anni fa, e che lei cita a chiusura del libro. Proprio lui che denunciò come sulle spalle dell’antifascismo si stava imponendo il consumismo. Cosa direbbe oggi?

«Pasolini aveva intuito tutto. In una lettera del 1973 ad Alberto Moravia scriveva: “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso, sfogato nelle piazze oggi a Fascismo finito, non sia un’arma di distrazione che la classe dominante usa per vincolare il dissenso”. Credo che direbbe le stesse cosa anche oggi. Il mio libro, in fondo, nasce proprio da questa consapevolezza. Non è un atto d’accusa, ma un invito alla riflessione».

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