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Giustizia, rappresentatività e sinistra allo sbando: il riformismo è la nuova “prateria” per la destra

L'editoriale

Giustizia, rappresentatività e sinistra allo sbando: il riformismo è la nuova “prateria” per la destra

Toccherà alla destra, ancora per molto, fare il lavoro anche per la sinistra. Ma non è una novità. Proprio l’impianto del governo Meloni è stato concepito per dare risposte "riformiste" a tutti le classi sociali: nel nome di una Nazione intesa come organismo composto da un insieme inscindibile

L'Editoriale - di Antonio Rapisarda - 2 Novembre 2025 alle 06:30

La destra, senza battere ciglio, continua a fare cose “anche” per la sinistra: per sbandamento conclamato di quest’ultima. È avvenuto con il taglio strutturale del cuneo fiscale per i ceti più deboli, con l’accorpamento sociale dei primi due scaglioni dell’Irpef, con la legge sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, con il sostegno “anti-imperialista” alla causa nazionale ucraina, con quello al piano di pace Trump per il Medio Oriente acclamato dalla Lega araba.

Avviene adesso con la riforma della giustizia – separazione delle carriere in primis – che completa il percorso costituzionale dell’articolo 111 sul “giusto processo” e del codice di procedura penale riformulato in chiave garantista da Giuliano Vassalli: giurista, già partigiano, di cultura spiccatamente progressista. Il percorso di Giorgia Meloni sembra destinato a ciò: a dover governare “anche” i fenomeni che i partiti social-democratici italiani hanno abbandonato. Non solo, dunque, le praterie sociali (l’immigrazione, la sicurezza e le tasse) su cui la sinistra è da più di un decennio in clamorosa ritirata ma pure i temi delle garanzie liberali dei cittadini di fronte allo Stato e alle sue articolazioni giudiziarie.

Sulla riforma Nordio l’ampia fronda interna al Pd – capitanata dall’architetto del campo largo, Goffredo Bettini – sta cercando in tutti i modi di spiegare alla segretaria l’errore strategico di lasciare alla destra la difesa, questo sì, di un aspetto determinante per uno Stato di diritto:  quello di «rafforzare», con i due Csm, «la fiducia nella giustizia, restituendo dignità tanto al giudice quanto all’imputato». Per anni – dalla Bicamerale D’Alema alla mozione congressuale Martina – non a caso uno dei punti qualificanti del Pd(s). Nulla da fare: il plot “apocalittico” di Elly Schlein e dei suoi sarà tutto indirizzato ad inseguire l’Anm, le intemerate di Gratteri e Davigo e l’opportunismo di Giuseppe Conte sulla boutade dei «pieni poteri» e della «sottomissione della magistratura al governo».

E così, vent’anni dopo l’ultima vittoria alle Politiche del centrosinistra, diciott’anni dopo la nascita del Pd, la regressione programmatica e “piazzaiola” del maggior partito della sinistra è sotto gli occhi di tutti. Certo, avranno contribuito nella reazione demagogica dieci anni di appoggio indiscriminato alle macellerie sociali dei vari governi tecnici a cui la Ditta post-comunista si è affiliata per mantenersi al potere, sacrificando l’intero blocco sociale di riferimento. Sia come sia il risultato è che sui principali dossier le ricette del campo largo sono allo stesso tempo confuse, dannose e strampalate: spesa pubblica fuori controllo, nuove tasse in funzione dell’ossessione chiamata Green deal, ulteriori cessioni di sovranità in funzione (militare e strategica) dell’asse franco-tedesco e conseguente isolamento dell’Italia dal contesto euroatlantico in direzione…Pechino.

La smorfia severa e sconfortata di Romano Prodi – interpellato da Lilli Gruber sull’esistenza di un’alternativa di governo alla destra – sta lì a dimostrarlo: «Per ora l’alternativa è scarsa, non ha la forza e la visione futura per dire di essere pronti a governare». Toc, toc: Elly il professore ce l’ha con te. Certo, nemmeno la riproposizione del Frankeinstein Ulivo-Unione si candida ad avere miglior sorte: troppe profonde le distanze fra la “sinistra su Marte” dei giallorossi e la tecno-Dc prodiana che dovrebbe essere guidata dall’ex esattore (sic!) Ernesto Maria Ruffini.

Morale? Toccherà alla destra, ancora per molto, fare il lavoro anche per la sinistra. Ma non è una novità. Proprio l’impianto del governo Meloni è stato concepito per dare risposte “riformiste” a tutti le classi sociali: nel nome di una Nazione intesa come organismo composto da un insieme inscindibile. All’obiezione di un valido interlocutore come il conduttore di Rainews Roberto Vicaretti («Adesso c’è pure la destra riformista?») il sottoscritto ha risposto: «Sì, questo è un governo riformista. Di un riformismo “nazionale” che si concentra non sull’ingegneria sociale ma sulle meccaniche che permettono lo sviluppo». E le risposte sono già arrivate: dal fisco alla giustizia, dalle tasse all’occupazione.

Il problema, insomma, è tutto dall’altra parte: a sinistra ormai non vi è più progresso sociale e visione comunitaria ma “dirittismo” individualista e difesa, come si vede sul fronte giustizia, del peggior status quo. La verità è che da quelle parti hanno smesso – da tempo – di voler governare i fenomeni per seguire, con il pilota automatico, i “vincoli” anti-nazionali determinati altrove: ecco perché governismo elitista di ieri e piazzate demagogiche di oggi in fondo vogliono la stessa cosa. Fra i due estremi (nient’altro che variazioni sul tema) si è innestata la destra laburista e interclassista e la sua volontà di mettere nelle migliori condizioni tutto quello che la premier ha ribattezzato «la via italiana». Un percorso che crea una direzione chiara per tutti, anche fra le “praterie” lasciate scoperte dagli altri.

 

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di Antonio Rapisarda - 2 Novembre 2025