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Carriere separate Falcone e Borsellino

Fabbrica della propaganda

Carriere separate, la verità tradita: così la sinistra riscrive la storia su Falcone e Borsellino

Dalla falsa intervista di "Samarcanda" alla bufala su Repubblica: i progressisti usano i simboli dell'antimafia per colpire Meloni e delegittimare la riforma Nordio

Politica - di Antonio Giordano - 12 Novembre 2025 alle 12:34

L’inchiostro avvelenato della disinformazione oggi colpisce due simboli della giustizia italiana, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Possiamo anche capire che in Italia ormai ogni riforma sia un pretesto per attaccare il governo, ogni proposta un campo di battaglia. Ma questa volta la sinistra è andata oltre. Non si limita a contestare nel merito: riscrive la storia, fabbricando falsità su chi quella storia l’ha scritta con il coraggio e il sacrificio.

L’intervista mai esistita

Un’intervista mai esistita a Paolo Borsellino: è da qui che nasce una delle più clamorose fake news sul tema della separazione delle carriere. Secondo il Fatto Quotidiano, il giudice avrebbe dichiarato a Samarcanda il 23 maggio 1991: “Separare le carriere significa spezzare l’unità della magistratura. Il magistrato requirente deve poter svolgere la sua funzione senza dover rendere conto al potere politico”.

Una frase mai pronunciata, in un’intervista mai esistita. Il Dubbio ha verificato nelle teche Rai: Borsellino non fu mai ospite di quella puntata, dedicata alla malasanità, né si espresse pubblicamente sulla separazione delle carriere. La sua unica partecipazione al programma di Michele Santoro risale al 1° dicembre 1988, in un contesto completamente diverso — il pool antimafia, il pentitismo, la Sicilia. Nulla a che vedere con la riforma oggi in discussione.

Eppure, la citazione falsa ha viaggiato velocemente, rimbalzando da un talk show all’altro. Travaglio l’ha rilanciata a Otto e mezzo, Gomez su Rai3, Formigli a Piazzapulita, Floris e Di Battista a DiMartedì. Una catena di eco e di complicità mediatiche che ha trasformato una falsità in “verità condivisa”. Un meccanismo di disinformazione perfetto: la bugia si diffonde, l’origine si perde, e la memoria di Borsellino viene riscritta per convenienza politica. Tutto per dipingere il giudice come simbolo del “No” alla riforma Nordio, piegando la storia a un’agenda di parte.

Cosa disse davvero Borsellino

La verità, come sempre, è meno comoda ma più limpida. Chi voglia conoscere davvero il pensiero di Paolo Borsellino deve riascoltare il dibattito di Racalmuto del 5 luglio 1991, con il ministro Claudio Martelli, disponibile su Radio Radicale. In quell’occasione il giudice spiegava che, in un’Italia priva di reale alternanza politica, l’indipendenza del pubblico ministero era una garanzia contro la tentazione di piegare la giustizia agli interessi di parte.

Ma aggiungeva anche che, in una democrazia matura, difendere quell’autonomia “a ogni costo” avrebbe significato scivolare nel corporativismo. È un pensiero equilibrato, lucido, lontano da ogni rigidità ideologica: non un manifesto politico, ma un ragionamento da magistrato consapevole dei limiti del proprio tempo. Né “paladino” della separazione, né suo oppositore: Borsellino guardava alla giustizia come servizio, non come bandiera.

Falcone, la verità negata

Lo stesso meccanismo si ripete con Giovanni Falcone. Anche a lui è stata attribuita un’intervista mai esistita, datata 25 gennaio 1992, in cui avrebbe denunciato il rischio di subordinare la magistratura all’esecutivo. Ma quell’intervista non esiste: negli archivi di Repubblica non ce n’è traccia.

Una falsificazione utile solo a costruire un racconto opposto al vero, presentando Falcone come difensore di un modello di magistratura che lui stesso, invece, voleva riformare. In realtà, l’unico testo autentico risale al 3 ottobre 1991, quando il magistrato espresse con chiarezza il suo pensiero sulla distinzione dei ruoli tra giudici e pubblici ministeri.

“Chi pensa alle carriere separate viene bollato come nemico”

In quel colloquio autentico, pubblicato da Repubblica, Falcone affermava parole inequivocabili: “Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’Esecutivo”. E aggiungeva: “È veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del pm con questioni istituzionali totalmente distinte”.

Più chiaro di così non si può: Falcone difendeva la distinzione funzionale, non la sovrapposizione dei ruoli, e chiedeva una magistratura moderna, efficiente, capace di garantire equilibrio e imparzialità. Il suo pensiero non nasceva da contrapposizione politica, ma da un’idea di giustizia capace di servire meglio i cittadini e lo Stato.

Falcone non difendeva una magistratura chiusa su sé stessa, ma un sistema capace di distinguere i ruoli per garantire imparzialità. La sua visione era quella di uno Stato forte e giusto, in cui il giudice e il pubblico ministero avessero competenze diverse ma complementari. Separare le carriere, per lui, non significava creare gerarchie o sudditanze, ma assicurare chiarezza, responsabilità e trasparenza. È in questa prospettiva che va letta la sua riflessione: non come bandiera di parte, ma come progetto di riforma dello Stato democratico.

Riscrivere la storia, inquinare la memoria

La sinistra ha riscritto la memoria di Borsellino per usarla contro la riforma Nordio, piegando la storia al proprio racconto. Nello stile “Romanzo criminale” — di cui Report è ormai diventato accademia — si inventano frammenti, si insinuano sospetti, li si inserisce in una mappa di puntini che inducono il cittadino a unirli nella propria mente in un disegno tanto suggestivo quanto falso.

Così vengono attribuite a due magistrati parole mai pronunciate, frasi decontestualizzate, pensieri reinventati, per costruire l’immagine di chi, dall’aldilà, sembrerebbe sostenere le tesi della sinistra. Un’operazione cinica che usa la memoria come clava e la storia come strumento di propaganda.

La verità che resta

Basterebbe leggere, o semplicemente ascoltare, per restituire la verità al suo posto. Falcone, come ben ricorda Il Giornale, lo scriveva nero su bianco in Interventi e proposte 1982-1992: “La regolamentazione della carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e quindi le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste: investigatore il pm, arbitro della controversia il giudice”.

Parole chiare, nette, che oggi vengono ignorate o distorte da chi preferisce piegarle al bisogno del momento, trasformando un ragionamento tecnico in uno slogan ideologico. Ma la verità di Falcone e Borsellino non sta nelle frasi isolate: sta nel loro metodo, nel rigore, nella fedeltà allo Stato di diritto. Ed è proprio quel metodo, fondato sull’onestà intellettuale e sulla ricerca del vero, che dovrebbe guidare anche il dibattito sulla giustizia — un dibattito che, a sinistra, troppo spesso si riduce a una rissa di fazioni e a un esercizio di propaganda travestito da moralismo.

Doppio tradimento

Falcone e Borsellino non appartengono a nessuno. Non sono patrimonio di una parte, ma coscienza collettiva della Repubblica. Chi oggi li usa per colpire Giorgia Meloni o per screditare la riforma Nordio, commette un doppio tradimento: verso la verità e verso la memoria. Perché la storia non si piega all’agenda del giorno, e l’inchiostro della menzogna, una volta versato, lascia sempre traccia.

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