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Una scena di “A House of Dynamite”

Consigli per la visione

“A House of Dynamite”: più che un film, un trattato di sociologia sulle ansie della sinistra americana

La pellicola di Kathryn Bigelow ribalta la prospettiva dei thriller di Guerra Fredda mostrando un'America indifesa e in balia di nemici invisibili. Una rappresentazione che ha fatto infuriare il Pentagono, ma che in realtà parla dell'incapacità dei liberal di leggere i fenomeni della geopolitica

Cronaca - di Guglielmo Pannullo - 9 Novembre 2025 alle 07:00

Distribuito da Netflix e diretto da Kathryn Bigelow, A House of Dynamite è diventato in poche settimane uno dei film più visti del momento, un successo che ha riacceso il dibattito non solo sul cinema politico americano, ma anche sulla percezione collettiva della sicurezza e della deterrenza nucleare. Al centro della storia, un missile balistico diretto verso gli Stati Uniti, proveniente da una potenza ignota e forse multipla: un incubo atomico che si consuma in appena diciannove minuti, durante i quali il Paese è costretto a interrogarsi sulla propria capacità di reagire.

“A House of Dynamite”: un thriller da guerra fredda al contrario

Bigelow costruisce un thriller di guerra fredda aggiornato al 2025, che riecheggia i classici del genere – da Fail Safe di Sidney Lumet al kubrickiano Dottor Stranamore – ma ne ribalta la prospettiva. Qui non sono gli Stati Uniti a lanciare un attacco per errore: è l’America stessa a essere nel mirino, ignara di chi la stia minacciando. La tensione è amplificata dall’incertezza della provenienza del missile e dall’impossibilità di attribuirgli una bandiera, un dettaglio che trasforma l’intero Paese in una gigantesca “casa di dinamite” pronta a esplodere da un momento all’altro.

La rappresentazione di un’America in crisi di identità

La pellicola alterna i punti di vista dei vertici militari, della Casa Bianca e dei centri radar, ricostruendo il panico (in)controllato degli apparati di potere. Ma dietro l’adrenalina della narrazione emerge un sottotesto più profondo: la rappresentazione di un’America paralizzata, in crisi identitaria, terrorizzata non tanto dal nemico esterno quanto dalla consapevolezza di non essere più padrona del proprio destino geopolitico. O almeno, questo vorrebbe la sinistra antimilitarista.

Un approccio ideologico antimilitarista

La scelta di rappresentare un sistema di difesa con solo il 50% di probabilità di successo ha scatenato la dura reazione del Pentagono, che ha accusato il film di sottovalutare la reale capacità di intercettazione dei vettori nucleari – in realtà superiore al 97%. Bigelow, come in The Hurt Locker e Zero Dark Thirty, rivendica la libertà dell’artista di «dire la verità», ma il suo realismo è in realtà una costruzione ideologica.
L’immagine di un apparato militare inefficiente e incapace di reagire è l’espressione di una certa cultura progressista americana che diffida della forza, della deterrenza e del principio stesso di difesa nazionale. È la stessa visione che tende a umanizzare eccessivamente la decisione politica, trasformando ogni errore in una tragedia morale e ogni soldato in una vittima psicologica.

In questa logica, la deterrenza – che storicamente ha impedito guerre mondiali o locali di ampia portata– diventa quasi un peccato, mentre la vulnerabilità è elevata a valore etico. Ma la realtà è che l’America profonda non si riconosce in questo pacifismo estetizzato: crede nel diritto alla difesa, nell’uso delle armi come estensione della libertà individuale e nel ruolo di superpotenza come garanzia di equilibrio globale.

La complessità geopolitica ridotta a psicodramma individuale

Noah Oppenheim, lo sceneggiatore, ha dichiarato di voler rappresentare «lo scenario migliore possibile», in cui tutti gli attori decisionali siano razionali, preparati e ben intenzionati. Ma proprio questo assunto tradisce il limite del film: l’idea che la crisi globale sia un problema di errori umani e non di scelte politiche e strategie di potenza legate ad aspetti geografici e non emotivi. In questo modo, A House of Dynamite diventa un trattato sul caos (in)controllato, dove la complessità geopolitica si riduce a psicodramma individuale.

La regia di Bigelow, buona sul piano tecnico e dell’intrattenimento, amplifica questa ambiguità. Il montaggio serrato, la camera a mano, le focali lunghe e i continui zoom ravvicinati costruiscono una claustrofobia visiva che traduce l’incertezza in linguaggio cinematografico. Tuttavia, dietro l’eccellenza formale si cela una concezione debole della realtà: un mondo dominato dal sospetto e dall’emotività, dove la politica è impotente e la decisione morale o politica è sostituita dalla paura e dal “tengo famiglia”.

Nel film, la geografia gioca un ruolo simbolico decisivo. Gli Stati Uniti, nazione naturalmente protetta da due oceani e da confinanti pacifici, sono rappresentati come vulnerabili, circondati da minacce invisibili. Ma è una vulnerabilità più ideologica che reale: l’America non può essere invasa militarmente proprio per la sua posizione geografica e per la diffusione capillare delle armi; e non vuole essere invasa culturalmente da chi propugna per un disarmo della società o per una rinuncia alla proprietà privata o alla sovranità militare globale.

Una rappresentazione perfetta delle ansie della sinistra americana

Questa ossessione per il “missile ignoto” diventa così la metafora di un nemico invisibile, che non è la Russia o la Cina, ma la paura stessa degli States di non credere più nella propria forza. La sinistra americana, che da decenni contesta il militarismo e le dottrine di deterrenza, trova in A House of Dynamite una rappresentazione perfetta delle proprie ansie: il timore dell’autorità che in realtà è debole e complessata, la canonica sfiducia verso gli apparati, la preferenza per la decrescita anche in campo bellico. Ma è proprio questa visione a rendere il film, per quanto affascinante, profondamente irrealistico. Nella realtà, nessuna superpotenza può permettersi di “decrescere” militarmente. E nessuna crisi può essere risolta con la sola emotività.

A House of Dynamite non è un film sulla guerra atomica, ma sulla resa psicologica dell’America contemporanea. Bigelow e Oppenheim mettono in scena una crisi morale, non geopolitica: una parte del Paese che non sa più credere nei propri apparati, che teme l’errore più della sconfitta. Il titolo stesso è una metafora perfetta: la “casa di dinamite” è l’Occidente, costruito sul principio della deterrenza – e quindi della libertà – e che oggi sembra pronto a implodere sotto il peso del relativismo e della paura, reale o indotta. Bigelow, pur con la sua tecnica, non firma un film sulla verità, ma sul disincanto di una parte della Nazione che ha smarrito la fiducia nella propria forza.

 

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di Guglielmo Pannullo - 9 Novembre 2025