
L’Italia alza il velo
Stop al burqa e chiarezza sui fondi ai centri islamici: perché la legge di Fratelli d’Italia tutela le donne e la legalità
Non è una crociata religiosa, ma un atto di ordine pubblico. È con questa impostazione che Fratelli d’Italia ha presentato la proposta di legge che molti hanno già ribattezzato “anti-separatismo”. Un testo che mira a disinnescare il rischio di una “contro-società” regolata più dalla legge shariatica che dall’ordinamento italiano. L’obiettivo è uno: impedire che l’integrazione degeneri in isolamento e che la tolleranza si trasformi in resa.
Burqa vietato, pene più severe e trasparenza
Il provvedimento, firmato da nomi di peso del partito di Giorgia Meloni — tra cui il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, la responsabile Immigrazione Sara Kelany, il responsabile del Programma Francesco Filini e il capogruppo Galeazzo Bignami — introduce misure precise: regole sulla trasparenza dei finanziamenti alle moschee, pene più severe per i matrimoni forzati, e soprattutto il divieto di indossare il velo integrale nei luoghi pubblici.
Non una guerra ai simboli, ma una riaffermazione della legalità. Il divieto riguarda infatti “indumenti che coprano il volto o rendano difficoltoso il riconoscimento della persona”, con sanzioni da 300 a 3.000 euro. «Non devo temere di difendere la mia identità perché qualcuno può sentirsi risentito», ha dichiarato Delmastro, respingendo ogni accusa di discriminazione.
La tutela delle donne al centro
Il testo affronta anche il nodo dei matrimoni forzati, tragicamente tornato d’attualità con il caso di Saman Abbas. Le pene per chi induce o costringe una donna a sposarsi vengono innalzate da due a sette anni, con aggravanti in caso di minori. Si introducono inoltre due nuovi reati: l’esame di verginità e il rilascio del relativo certificato, puniti con la reclusione da due a cinque anni. È un segnale netto contro ogni forma di violenza o controllo sul corpo femminile, anche quando mascherata da tradizione.
Moschee, si chiede chiarezza
Altro punto chiave: la tracciabilità dei finanziamenti alle comunità religiose. Le associazioni che intendano costruire luoghi di culto dovranno redigere bilanci completi e depositarli presso la Camera di Commercio, segnalando ogni contributo proveniente dall’estero al Ministero dell’Interno. Un principio di trasparenza che, se davvero rispettato, impedirà che la carità religiosa diventi copertura per altri scopi.
In caso di istigazione all’odio o alla violenza nei luoghi di culto, i prefetti potranno disporre la chiusura temporanea delle strutture fino a due mesi. E si estende il reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi religiosi, punendo anche chi diffonde idee basate sulla “superiorità o sull’odio di natura religiosa”.
I distinguo nella maggioranza
La Lega accoglie con entusiasmo la proposta: «FdI ha accolto due nostre proposte presentate nel 2023 e nel 2025 — afferma il deputato Igor Iezzi —. Speriamo che ora l’iter proceda spedito». Forza Italia, più cauta, chiede di discutere nel merito, ma non nega la necessità di un intervento normativo.
Le voci contrarie non mancano. L’imam Massimo Abdallah Cozzolino sostiene che “una normativa simile già esiste” e teme che la misura “colpisca l’identità religiosa della comunità islamica”. Ma Sara Kelany replica che la norma antiterrorismo sul travisamento del volto è stata interpretata con troppa elasticità, «in maniera lasca». Ora, serve chiarezza.
Una scelta di libertà, non di esclusione
Molti Paesi europei — dalla Francia al Belgio, dai Paesi Bassi all’Austria fino alla Svizzera — hanno già introdotto divieti analoghi. E la Corte europea dei diritti dell’uomo, nel 2014, ha giudicato legittima la legge francese, riconoscendone la “giustificazione obiettiva e ragionevole”. Il divieto non limita la fede, ma la coercizione. Non proibisce la spiritualità, ma la segregazione.
Il principio è semplice: la libertà di culto non può annullare la libertà della persona. Né una società aperta può accettare che una parte dei suoi cittadini viva dietro un velo, invisibile agli occhi della legge e della comunità.
L’identità come sicurezza
Chi invoca la sicurezza lo fa anche in nome dell’uguaglianza. Negli anni del terrorismo, si vietò il casco integrale per evitare che fosse usato come maschera. Oggi, il principio è lo stesso: la riconoscibilità è una condizione minima di convivenza civile.
Non è una priorità, diranno alcuni. Ma le priorità cambiano col tempo, e non sempre coincidono con i titoli dei giornali. Difendere la propria identità culturale e la sicurezza dei cittadini non è mai un tema minore.