
Se la suona e se la canta
Paradosso e pregiudizio, Giuseppi “Mao” Conte è l’unico ad avere i requisiti per fare il leader: ma se lo dice da solo
L'avvocato di Volturara Appula è un capo di partito italiano la cui autorità si fonda su requisiti auto-prescritti, in nome e per conto dei quali si erge ad arbitro morale e custode della purezza grillina. Un caso di leadership auto-generata più che conquistata a suon di primarie...
Della interminabile sfida in seno al M5S tra Grillo e Conte – rispettivamente fondatore e attuale leader, con quest’ultimo soprannominato ormai da frondisti e duri e puri della prima ora grillina l'”affondatore” – abbiamo detto e scritto abbondantemente ieri. Eppure, nel riprendere le fila del discorso, ricominciando da dove la querelle si è fermata ormai quasi un anno fa – quando Conte ha letteralmente estromesso l’Elevato, facendo piazza pulita intorno a lui – non possiamo non ritornare sul punto partendo da un dato innegabile. In merito al quale negli ultimi precedenti interventi abbiamo fatto solo qualche accenno. Ma che merita decisamente un approfondimento.
Giuseppi “Mao” Conte: il leader coi requisiti dati da se stesso
Ossia: trasformando il principio movimentista fondante dell’”uno vale uno” in una leadership accentrata sull’”uno vale su tutti”, Giuseppi “Mao” Conte si è in effetti fatto proclamare leader sulla base di requisiti dati da se stesso. Certo, fin qui l’operazione gli ha garantito una crescita nei sondaggi (circa al 13% al suo meglio). Anche se poi il processo si è bruscamente interrotto nelle urne regionali, con l’M5S colpito e affondato dagli elettori, finendo per annaspare intorno a un esiguo 5%.
Da “avvocato del Popolo” a leader alla “Mao” dei Cinque Stelle
Ma tant’è: resta il dato di base – e una “cifra” peculiare inalienabile al momento – per cui, nell’eccentrico panorama politico italiano, emerge una figura la cui leadership sembra obbedire a una serie di requisiti che l’interessato ha avuto l’ingegno e il merito di auto-prescrivere in un nuovo Statuto pentastellato o comunque che è riuscito a far passare: quelli che l’hanno portato ad essere Giuseppe Conte, da ex “avvocato del Popolo”, a leader alla “Mao” dei Cinque Stelle, lontano da quell’icona di leguleio a sostegno dei diseredati (e degli spogliati del Rdc) .
Nominato in quanto unico ad avere i requisiti da leader (da lui stesso dettati)
Conte, in effetti, è a ben vedere l’unico alfiere del sistema partitico a potersi fregiare di una duplice investitura: la prima, come tecnico prestato alla politica, culminata nella Presidenza del Consiglio offerta sul piatto d’argento a chi, all’epoca di quello che sarebbe diventato il Conte 1, era semplicemente un ordinario di cattedra. La seconda, quella odierna, che lo vede agire e interagire con alleati e ami-nemici in qualità di “Verbo rivelato” e insediato a capo del Movimento. Il tutto in ossequio a uno stile – il suo – che oscilla tra il professore di Diritto (ormai un lontano ricordo, per la verità). E il tribuno del popolo: due figure sincreticamente e alchemicamente amalgamate in nome e per conto di una fede incrollabile: che lui, e solo lui, detenga la chiave per interpretare il malcontento e la purezza politica.
E primarie o plebisciti popolari…
La sua auto-proclamazione a unico arbitro morale e politico dell’opposizione poggia però su un paradosso esilarante: Conte non è il leader perché ha vinto le primarie con un plebiscito popolare esterno (come accade altrove), ma perché ha ereditato la “ditta” e poi ha redatto il manuale d’istruzioni per il suo utilizzo. Proprio così: come molti ricorderanno, infatti, il suo incarico è nato da una nomina politica. Giuseppi “Mao” Conte, infatti, è diventato leader del Movimento 5 Stelle nel 2021, succedendo a Vito Crimi, che aveva assunto il ruolo ad interim dopo le dimissioni di Luigi Di Maio. Ma, come ricorderanno i più, e come registra finanche Wikipedia, non ci sono state primarie che dir si voglia per la scelta della leadership: la sua nomina è avvenuta tramite un processo elettorale interno al Movimento.
Conte la nomina, la leadership
I requisiti per la leadership contiana, in sostanza, non sono mai stati dettati da una base che lo abbia richiesto con fervore incontenibile, quanto dalla necessità di riempire un vuoto lasciato da un Direttorio in disfacimento. Questa dinamica lo rende una figura unica, quasi un artista concettuale della politica: il suo potere più che delegato, è auto-generato. Come un filosofo che prescrive la sua stessa dottrina, Conte detta la linea, giudica l’operato altrui (spesso con l’ingombrante fardello dei suoi precedenti disastri, dal Superbonus ai banchi a rotelle), e si erge a sentinella dell’ortodossia grillina. E tutto in un’era politica in cui il leader non è eletto per i risultati ottenuti, ma per la narrazione che riesce a imporre: quella dell’eterno “avvocato” che non ha bisogno di avvocati difensori, perché la difesa è insita nella sua stessa, auto-acquisita, statura morale…