
Pensionare la "neolingua"
Non chiamatela carne: il no ai “burger” vegetali è un ritorno alla realtà anche nell’uso delle parole
La decisione del Parlamento europeo non va letta solo nell'ambito della tutela dei prodotti alimentari, ma come il segnale di una progressiva riaffermazione della normalità, dopo anni in cui il linguaggio è stato piegato a diktat ideologici
Il Parlamento europeo ha finalmente posto un argine alla deriva linguistica che negli ultimi anni aveva contagiato anche il lessico alimentare: con 532 voti favorevoli, l’Aula di Strasburgo ha approvato un emendamento che vieta l’uso di termini associati alla carne per descrivere prodotti vegetali. Addio, dunque, a “veggie burger”, “salsiccia di tofu” e “uovo vegetale”. Una decisione che non riguarda solo le etichette alimentari, ma tocca il cuore di un problema molto più profondo: quello dell’abuso ideologico del linguaggio, trasformato in strumento di manipolazione culturale attraverso assonanze familiari.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un vero e proprio assalto semantico: parole come carne, latte o uovo sono state svuotate del loro significato reale per essere applicate a prodotti che nulla hanno a che vedere con ciò che la nostra tradizione e la nostra cultura gastronomica hanno sempre riconosciuto. Il latte di soia non è latte, come la bistecca di ceci non è carne. È la banalizzazione del linguaggio come veicolo di un pensiero pseudo-ecologista e post-identitario, che pretende di riscrivere la realtà attraverso le parole. Orribile quel tempo in cui tocca sguainare la spada per affermare che l’erba è verde e la neve bianca, direbbe Tacito.
Dietro questa tendenza, apparentemente innocua, si nasconde un progetto culturale ben preciso: normalizzare l’idea che l’uomo e la natura possano essere ricostruiti in laboratorio, che il “sintetico” possa sostituire il naturale, che la finzione linguistica possa sostituire la verità delle cose. È la stessa logica che anima la battaglia per la carne coltivata, per il latte artificiale e per una lunga serie di prodotti industriali che vengono spacciati come “sostenibili”, ma che in realtà spesso provengono da filiere lontane, inquinanti e fondate sullo sfruttamento.
Riportare la lingua (e quindi la realtà) al centro del villaggio significa restituire senso e misura alle parole. E questa decisione del Parlamento europeo rappresenta, in fondo, un atto di buon senso: un passo indietro rispetto alla follia del “politicamente corretto” che negli ultimi anni ha tentato di riscrivere la grammatica del mondo. Un fenomeno che non riguarda solo il cibo: lo abbiamo visto con la neolingua imposta dal pensiero unico, con lo “schwa” inventato per cancellare il maschile neutro, con la pretesa di negare l’esistenza dei due sessi biologici, con l’uso di parole edulcorate per ammorbidire la percezione della realtà – da “clandestini” trasformati in “migranti” per giustificare quello che abbiamo visto essere schiavismo, a “utero in affitto” travestito da “gestazione per altri” per realizzare la mercificazione di donne spesso con difficoltà culturali e sociali.
Sembra momentaneamente archiviato quindi il progetto maldestro di personalità alla Boldrini & co, convinte della necessità di una neolingua per modificare percezione e realtà, ignorando ostinatamente il fatto che le parole non sono neutre. Sono radici, storia, identità. Come ricordava Hegel, «è proprio della più alta cultura di un popolo il poter esprimere tutto nella propria lingua».
Difendere la lingua, in tutte le sue espressioni, significa difendere la cultura e la verità dei popoli contro l’omologazione di una neolingua globale che vuole cancellare differenze, tradizioni e realtà materiali. Anche dalle infatuazioni linguistiche esterofile. Oggi, finalmente, l’Europa sembra accorgersi che il linguaggio non è un gioco. È uno strumento di verità. Il resto è solo ideologia. In Italia, il ministro Lollobrigida ha più volte ribadito l’importanza di tutelare la denominazione dei prodotti e il valore identitario della nostra alimentazione. È una battaglia di civiltà che riguarda non solo le nostre tavole, ma il diritto di chiamare le cose con il loro nome. Come insegna Orwell, «chi controlla il linguaggio, controlla il pensiero». E oggi, forse, abbiamo ritrovato un po’ di libertà.