
L'intervista
La tregua a Gaza e il ruolo di Trump: Massolo ci spiega perché l’Italia ha consolidato la propria credibilità internazionale
L’ambasciatore Giampiero Massolo ci spiega come e perché il piano voluto da Donald Trump, che ha messo fine alle ostilità e consentito il ritorno a casa degli ostaggi del 7 ottobre, può ridisegnare davvero gli equilibri in un’area da sempre martoriata
Una tregua che non è ancora pace, quella tra lo Stato d’Israele ed Hamas. Intanto però le armi sono state messe da parte e a Gaza si torna a vivere. Il resto si realizzerà un passo alla volta. O meglio: una «fase» alla volta, per dirla con l’ambasciatore Giampiero Massolo. Diplomatico di lungo corso particolarmente attento alla dimensione della realpolitik, oggi al vertice di Mundys, ci spiega infatti perché il piano voluto da Donald Trump e che ha messo fine alle ostilità e consentito il ritorno a casa degli ostaggi del 7 ottobre, può ridisegnare davvero gli equilibri in un’area da sempre martoriata.
Ambasciatore, possiamo dire che l’accordo sottoscritto a Sharm el-Sheikh con la regia del presidente degli Stati Uniti d’America sia di portata storica?
«Il piano Trump segna un passaggio di fase più che un punto di arrivo. Il conflitto israelo-palestinese, per la sua natura storica e per la molteplicità di interessi in gioco, non è destinato a risolversi in tempi prevedibili. Tuttavia, il piano ha consentito di passare da una guerra aperta e da un dramma umanitario a una tregua, seppur precaria, che ha interrotto le ostilità. Le armi stanno tacendo, intanto. È una tregua che regge perché tutte le parti hanno ottenuto qualcosa: Israele la liberazione degli ostaggi, Hamas una sopravvivenza politica, e gli Stati Uniti un successo diplomatico».
Crede che questa tregua possa durare?
«La tregua è parte di un processo a fasi. La prima, quella del cessate il fuoco e dello scambio di prigionieri, appare più solida del previsto. Ma la seconda fase – la creazione di un governo tecnico palestinese, il sostegno internazionale e il disarmo di Hamas – è più complessa. Israele ha intanto ottenuto la liberazione degli ostaggi, ma non si ritirerà finché Hamas non disarmerà. E Hamas, che non ha più opzioni militari disponibili essendo stata sconfitta sul terreno, non deporrà le armi finché Israele sarà presente a Gaza. L’equilibrio è fragile, ma necessario per arrivare alla fase successiva: la ricostruzione».
Cosa ha ottenuto Donald Trump?
«Il presidente Trump ha ottenuto quanto aveva promesso in campagna elettorale: fine della guerra, tregua e ostaggi a casa. Anche i Paesi arabi moderati hanno ottenuto quanto speravano: il ritorno agli Accordi di Abramo».
Qual è il ruolo che possono giocare gli europei nello scacchiere medio-orientale?
«C’è da premettere che l’Europa è tradizionalmente abbastanza assente nel Medio Oriente. Certamente, ha sostenuto i negoziati e la prospettiva di uno Stato palestinese, ma non ha espresso finora una vera presenza politica nell’area. Aggiungo per completezza che la politica estera europea è di competenza dei singoli Stati, non dell’istituzione Ue. L’Europa, tuttavia, oggi può contribuire alla pace con ciò che sa fare meglio: partecipare a una forza di stabilizzazione e sostenere la ricostruzione di Gaza. Il piano Trump, in questo senso, apre spazi di coinvolgimento europeo, anche attraverso missioni congiunte con i Paesi arabi».
E l’Italia?
«L’Italia ha mantenuto un atteggiamento equilibrato, evitando fughe in avanti e rafforzando la credibilità del proprio approccio pragmatico. Davanti al tradizionale interventismo francese, l’Italia ha saputo essere più prudente e costruttiva, sostenendo il percorso di tregua americano, evitando di giocare troppo presto la carta del riconoscimento dello Stato palestinese, una scelta che avrebbe significato privarsi di un utile strumento negoziale».
In questa fase si ha la sensazione che le regole del diritto internazionale abbiano lasciato spazio ad altri linguaggi. Lei stesso ha definito il piano Trump un «esercizio di Potenza». In che senso?
«Trump ha applicato la logica della realpolitik: ha usato il peso degli Stati Uniti come leva diretta sulle parti in conflitto, alternando pressioni e incentivi. È il ritorno alla diplomazia del più forte, dove l’effettività conta più della forma giuridica. Il diritto internazionale, alla fine, è sempre stato una codificazione dei rapporti di forza. In tempi di contrapposizioni e non di cooperazione, torna in auge il principio tucidideo, dove il forte fa ciò che può e il debole subisce ciò che deve».
Siamo dentro questa fase storica?
«In realtà, ogni fase storica ha reinterpretato tale principio secondo i rapporti di potere del momento. Nelle epoche di equilibrio tra blocchi, come durante la Guerra fredda, il diritto fungeva da cornice di contenimento. Oggi, in un mondo multipolare, l’effettività torna a prevalere sulla norma, e le regole diventano strumenti flessibili, adattati agli interessi delle potenze emergenti. Trump ha intuito questa transizione e ne ha fatto un cardine della sua azione, sostituendo la diplomazia classica con la forza negoziale della sorpresa e della pressione diretta».
Tornando all’Europa, la presidente von der Leyen ha appena lanciato il Patto per il Mediterraneo; mentre a Napoli, sotto la regia dell’Ispi, istituto che lei ha presieduto, sono stati inaugurati i Dialoghi Mediterranei. Dopo la lunga attenzione al Nord e all’Est, si torna a guardare strategicamente al Sud del continente?
«È un ritorno necessario. Il fianco Sud dell’Europa non è affatto pacifico: lì si giocano questioni cruciali per la sicurezza, l’energia e i flussi migratori. Non possiamo ignorare la rinascita del terrorismo jihadista né la competizione d’influenza di attori esterni, come la Russia, che sfruttano l’instabilità regionale. Il piano Mattei e l’iniziativa della Commissione rispondono a questa consapevolezza: serve una politica di cooperazione strutturata con il Nord Africa e il Sahel, non solo emergenziale. In questo senso, l’Italia sta cercando di riaffermare la propria centralità nel Mediterraneo, puntando su una diplomazia energetica e infrastrutturale che unisce sviluppo e sicurezza. Il piano Mattei è una delle rare visioni strategiche che riconoscono al Sud del mondo un ruolo non più marginale, ma co-protagonista di un ordine internazionale in ridefinizione. Serve però continuità: non bastano iniziative simboliche, occorre un impegno costante di lungo periodo, che coinvolga l’Unione Europea nella stessa direzione».
Ambasciatore, Trump ha annunciato l’incontro con Putin in Ungheria. In che termini è possibile ottenere la fine delle ostilità e una pace che sia prima di tutto giusta per l’Ucraina?
«Trump ha sempre oscillato tra l’accordo diretto con Putin e il rispetto delle esigenze dell’Ucraina. Oggi cerca una via d’uscita che gli consenta di mantenere le promesse elettorali e chiudere il conflitto. Tuttavia, un compromesso accettabile deve garantire la sicurezza di Kiev, la sua permanenza in Occidente e impedire che l’aggressione russa risulti premiata. L’America ha certamente bisogno di un’Europa stabile se vuole affrontare la sfida cinese. Se Putin non mostrerà una reale apertura negoziale, Trump dovrà esercitare una pressione più forte. In caso contrario, sarà Zelensky a trovarsi sotto pressione per accettare un compromesso. In ogni caso, il vero banco di prova sarà la capacità degli Stati Uniti di mantenere una leadership credibile in un sistema internazionale dove la fiducia nelle istituzioni multilaterali è in crisi. La sfida per l’Occidente sarà quella di combinare realismo e principi, evitando che il pragmatismo degeneri in cinismo. Solo così l’equilibrio tra sicurezza e diritto potrà tornare a reggere anche nei conflitti del futuro. Vedremo, insomma».