
Il libro
Il diario di viaggio come patria: la lezione spirituale di Sylvain Tesson, un «anarca in marcia»
Le pagine di Tesson hanno la medesima grammatura delle meditazioni evoliane sulle vette. Probabilmente perché le esplorazioni dello spirito battono inevitabilmente i medesimi sentieri interiori
Si cela una strana scintilla nei racconti dei viaggiatori. Sin dalle epoche più remote, si è ritenuto infatti che essi fossero portatori di una conoscenza destinata ad andare ben oltre la lettera degli episodi narrati, diventando veicoli necessari a varcare le porte dell’invisibile, della metafisica, del sacro. Le grandi tradizioni dell’umanità hanno, da sempre, guardato con particolare attenzione all’esperienza di chi ha deciso per la solitudine del vagabondaggio, la fatica dell’errare, la disciplina dello sforzo. Il parigino Sylvain Tesson di strada ne ha percorsa parecchia. Ha girato il mondo in bicicletta, ha esplorato le altitudini dell’Himalaya e attraversato a cavallo l’Asia centrale. Ha camminato tantissimo e rischiato altrettanto. E ha scalato le pareti delle cattedrali gotiche, sfidando le altezze e i muscoli delle mani. Mani che ha utilizzato anche per imprimere su carta intuizioni e fatti. Da giornalista non avrebbe potuto fare altrimenti. Già conosciuto al grande pubblico per i suoi libri, nel 2025, per i tipi di Piano B, casa editrice di Prato destinata a lettori dal palato fine, ha pubblicato in italiano due pamphlet da leggere necessariamente in tandem: il Piccolo trattato sull’immensità del mondo e Una leggerissima oscillazione. Diari 2014-2017.
Se il primo compendia la sua visione del mondo in un testo che ha il sapore della filosofia agita, il secondo è la cronaca ragionata di un peregrinare globale. Due facce della stessa medaglia, teoria e fenomenologia della medesima esperienza. Interno ed esterno. Macro e micro. Ogni vero viaggiatore – del resto – non può rinunciare al diario intimo in quanto luogo di «battaglia contro il disordine». Le istruzioni per l’uso offerte da Tesson ci insegnano, infatti, che ogni diario «è l’ancora di salvezza nell’oceano di questo errare. Lo si ritrova la sera. Ci atteniamo ad esso. Ci immergiamo per dimenticare le trepidazioni, gli affidiamo un pensiero, il ricordo di un incontro, l’emozione creata da un bel paesaggio o, meglio, da un volto, questo paesaggio dell’anima. Annotiamo una frase, rabbia, entusiasmo, l’abbaglio di una lettura. Ci torniamo ogni sera. Gli promettiamo la nostra fedeltà. L’unica che vale, la sola che dura. Il diario è una patria».
Classe 1972, Tesson è un intellettuale poliedrico e policentrico che si fa fatica a costringere entro una sola categoria, anche quando risulta provvisoria. È vero: al bibliotecario può tornare utile organizzare i suoi titoli nella narrativa di viaggio, rispondendo alle necessarie esigenze d’ordine. Ma il lettore resterà comunque insoddisfatto da questa scelta, soprattutto dopo aver fatto esperienza di cosa è il nomadismo dello spirito. Esattamente. L’inchiostro di Tesson fa luce su un’esperienza che ha a che vedere non soltanto con i luoghi, ma con la dimensione del sé, con le profondità umane.
«Muoversi a piedi – scrive Andrea Scarabelli nella prefazione ai Diari – in particolare, lega spazio e tempo, il qui all’ora, cadenza il respiro, diastole e sistole e riterritorializza l’animo dell’uomo moderno, apolide nella sua illusione tecnocratica. Tuttavia, non è qualcosa da compiersi a cuor leggero: si tratta infatti di un feroce corpo a corpo con se stessi, che saggia la propria tenuta interiore, spingendoci a verificare se disponiamo o meno di un Io al di fuori di quello assegnatoci dal Leviatano che tutto irrigimenta, dispositivo pervasivo e totalitario».
Le pagine di Tesson hanno la medesima grammatura delle meditazioni evoliane sulle vette. Probabilmente perché le esplorazioni dello spirito battono inevitabilmente i medesimi sentieri interiori. L’esploratore francese, pur recidendo i legami con il «moderno», è chiamato a fare i conti con gli itinerari e le possibilità dell’epoca attuale. E la sua testimonianza ci torna utile. Ha attraversato l’Ucraina ben prima della guerra e colto delle tensioni che soltanto chi ha messo i piedi sul terreno poteva comprendere. Ha appreso da vicino cos’è l’Isis; ha annusato l’aria inquinata di una Pechino che si è lasciata alle spalle il ricordo della rivoluzione culturale.
Il suo errare, tuttavia, ha poco a che vedere con un programma politico o con le seduzioni escatologiche di chi vuole «cambiare il mondo». Non è un apostolo a cui un «anarchico palestinese» ha affidato una missione universale. Il modello di riferimento è semmai il wanderer, il vagabondo romantico che non appartiene alla sua epoca e «va all’avventura perché desidera che ogni giorno sia una sorgente di imprevisti». La sua è la religiosità dell’hic et nunc. Quella cioè dell’anarca jüngeriano, il «contemplativo che osserva il mondo dalla sua alta loggia senza mai uscire». Tesson, però, ha preso il largo e calcato la polvere, scoprendosi qualcosa di diverso e nuovo. «Un anarca in marcia».