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Mattia Faraoni: “In Italia le stazioni sono i luoghi più pericolosi, bisogna dare una speranza alle periferie”

L'intervista

Mattia Faraoni: “In Italia le stazioni sono i luoghi più pericolosi, bisogna dare una speranza alle periferie”

Con il campione di kickboxing e volto di YouTube abbiamo parlato del degrado che vivono le borgate italiane, non soltanto quelle romane. Tra gli altri temi affrontati anche quello della violenza giovanile "Maranza" e le pessime condizioni in cui versano le stazioni

Società - di Gabriele Caramelli - 7 Settembre 2025 alle 07:05

Lo conoscete come uno dei reporter nel format YouTube “Quartieri criminali”, ideato da Simone Ruzzi, noto anche come Cicalone. Stiamo parlando di Mattia Faraoni, nato a Roma il 13 novembre 1991. È anche un famoso kickboxer italiano e 3 volte vincitore del titolo nazionale, con una passione sfrenata per le chitarre, il blues e l’hard rock. Con lui in questa lunga intervista al Secolo d’Italia abbiamo parlato della criminalità diffusa in Italia e delle questioni difficili che affrontano ogni giorno i tanti abitanti delle periferie. Spesso si tratta di italiani abbandonati per anni dalle istituzioni: basti pensare al caso delle “Vele” di Scampia, dove oltre alla povertà gli abitanti hanno dovuto convivere con problemi logistici non indifferenti. Ci sono poi “periferie” in pieno centro: proprio dai documentari di Faraoni e Cicalone è emerso infatti che i luoghi più pericolosi sono le stazioni. Vere e proprie “stazioni del degrado” dove abitano, per così dire, persone che hanno “disturbi psichici” e dipendenze da alcol e stupefacenti: un vero pericolo contro il quale il governo è intervenuto istituendo le zone rosse. Sul fenomeno della criminalità giovanile e dei “Maranza”, Mattia infine ritiene che sia proprio lo Stato italiano a dover prendere in mano una situazione potenzialmente esplosiva.

Cosa avete scoperto con Cicalone durante le riprese nelle periferie e nelle stazioni italiane?

«Abbiamo iniziato a parlare delle periferie per mostrarne anche il lato buono ed evitare che fossero definite solo come piazze di spaccio e delinquenza. A volte questi luoghi sono abbandonati dalle istituzioni: non vengono valorizzate dal punto di vista culturale e sportivo. Invece sarebbe molto importante, soprattutto per i giovani che rischiano di crescere senza sensibilità. La delinquenza esiste in tutte le città italiane, non soltanto a Roma, ma i luoghi peggiori che abbiamo visitato in generale sono le stazioni. Lì puoi incontrare persone che magari hanno disagi psichici e sono sotto effetto di droghe. A volte ci è capitato di intervistare persone che un giorno prima parlavano serenamente e il giorno seguente ci lanciavano le bottiglie. Spesso hanno anche provato ad aggredirci in branco. Magari io non ho paura perché ho una struttura fisica curata e sono molto agile, però mi rendo conto che una persona normale potrebbe rischiare molto di più. Al di là di tutto non lascerei mai mia mamma o mia moglie da sola alla stazione, vista la situazione: piuttosto preferirei andarle a prendere personalmente».

Ha sentito parlare dello stupro di Tor Tre Teste da parte di un cittadino gambiano?

«Sì quella è una notizia clamorosa. Io non sono un giudice, ma in quel caso l’utilizzo della droga non può essere considerato un’attenuante. Di mezzo ci dev’essere anche qualche malattia mentale. Peraltro da quel che so aveva già violentato un’altra donna poco tempo prima. Comunque a mio avviso non si può giustificare uno stupro dando la colpa ad uno stato di coscienza alterato».

Quanto agli ultimi disordini al Quarticciolo, crede che si debbano prendere provvedimenti?

«Le forze dell’ordine possono essere un deterrente per evitare che la criminalità si radicalizzi sul territorio. Però ripeto, secondo me bisognerebbe iniziare a curare culturalmente queste zone. D’altra parte quando i ragazzi non hanno stimoli rischiano di perdersi e di compiere azioni sconsiderate. Ritorno al discorso dei format su YouTube: quando abbiamo girato gli episodi di “Quartieri criminali”, siamo riusciti ad incontrare anche tante storie di speranza e persone che in realtà hanno sofferto parecchio durante la loro vita. Bisogna cercare di riqualificare questi luoghi. Alle “Vele” di Scampia ci siamo stati e non tutti riescono ad andare: abbiamo incontrato tante storie diverse anche lì, dove le persone vivono in situazioni difficili. Alcune volte le scale sono pericolanti, mancano gli ascensori, i vetri delle finestre sono rotti e c’era persino la muffa dentro le case».

Il fenomeno violento dei maranza è un pericolo a livello sociale?

«È una bella domanda. La violenza è sempre un problema, bisogna trovare un modo diverso di relazionarsi con il prossimo, senza ferire. A questi ragazzi che compiono azioni illegali bisognerebbe spiegare il significato di ciò che fanno e renderli consapevoli. Per l’essere umano l’ambizione è molto importante: chi insegue un sogno e fa delle attività sane non andrà mai a delinquere. Alcuni Paesi come l’Irlanda aiutano i ragazzi a fare delle attività formative e questo è molto importante per evitare di perderli. Da quanto ho letto, il fenomeno maranza viene spesso collegato ai giovani che crescono nelle famiglie di origine migrante, dunque bisognerebbe evitare che questi ragazzi creino una terza identità. Perché il rischio è che si accentuino gli scontri con gli italiani. È necessario cercare di interrompere questo problema già dal principio, facendogli comprendere la sofferenza che provocano e poi educarli ad avere un obiettivo. Altrimenti resteranno in giro a bighellonare senza combinare mai niente».

Ci sarà una degenerazione in futuro?

«Io non lo vivo direttamente, ma rispetto agli ultimi trent’anni ci sono molte persone che si identificano in questa bandiera dei “maranza”. Non capisco neppure se sia un mondo per affermare ulteriormente una presenza sul territorio. Comunque lo Stato dovrebbe intervenire per indagare sulle motivazioni e sulle cause, cercando di porre finalmente rimedio al problema. Al di là di tutto, non so dire se continuerà a lungo».

Come l’hanno aiutata la boxe e le arti marziali nella disciplina e nel rispetto?

«Mi hanno aiutato tantissimo e mi hanno strutturato tantissimo a livello emotivo, oltre che psicologico. Quando sei un lottatore devi regolare gli istinti, anche sugli alimenti, visto che si combatte per categorie di peso. Se hai la possibilità di affrontare dinamiche come queste sin da piccolo, puoi comprendere il significato della disciplina. A me piace molto combattere, ma quello che vedi è solo il 40% di quello che c’è dietro: ci sono tanti sacrifici che magari non sono divertenti, ma necessari per la preparazione. Il mio è uno sport individuale che consente di potersi confrontare con gli altri e in questo modo riesci a comprendere anche cosa provano. Può capitare di rivedere in loro tutte quelle paure che avevi anche tu all’inizio e questo ti porta a rispettarli, perché sai come ci si sente. Quando incontro i più giovani cerco di stare attento alle loro debolezze e fragilità, dato che ci sono passato anche io».

Che valore ha per lei la famiglia?

«La famiglia per me è importantissima ed è il motivo per cui continuo ad andare sempre avanti. Ogni azione lavorativa, sportiva e sociale è anche collegata a mia figlia e a mia moglie. Sono sposato da 3 anni e abbiamo convissuto insieme per altri 8. Io sono ateo, anche se affascinato da tutte le religioni, ma tengo comunque moltissimo al legame familiare e alla monogamia. Non faccio alcuna fatica ad essere ciò che sono».

C’è qualche sogno sportivo che sta seguendo?

«Vorrei tornare in Giappone e competere per la massima cintura nel torneo K1GP di kickboxing».

In che modo la musica l’accompagna nella vita e quali sono le sue fonti d’ispirazione?

«Io suono il Rock and Blues ed è la colonna sonora della mia vita, mi accompagna ogni giorno: d’altra parte sono anche un chitarrista. Mi piacciono moltissimo gli AcDc, i Queen, i Led Zeppelin e i Guns and Roses».

Quali sono i tuoi atleti preferiti?

«Il mio preferito è il karateka e kickboxer svizzero Andy Hug, che ha vinto il K1GP. Quando ero piccolo ero affascinato dalla figura di Muhammad Alì, perché ero longilineo e soprattutto è stato un personaggio che ha combattuto contro la segregazione razziale degli afroamericani. Il mio terzo combattente preferito è Giovanni De Carolis, ci siamo allenati insieme per 10 anni e ha sempre creduto nei suoi sogni. Peraltro è una persona educata e umile. Piuttosto non mi piacciono i combattenti che ostentano la troppa ricchezza come Conor McGregor e Floyd Mayweather».

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