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De Gasperi, la Dc e la secolarizzazione dell’Italia: dal partito-Stato alle degenerazioni della partitocrazia

Il commento

De Gasperi, la Dc e la secolarizzazione dell’Italia: dal partito-Stato alle degenerazioni della partitocrazia

Politica - di Riccardo Pedrizzi * - 20 Settembre 2025 alle 09:07

Su Alcide De Gasperi si vanno susseguendo in questi ultimi tempi convegni e rievocazioni anche per il trentennale della fine della Democrazia Cristiana, che fu una sua creatura. In genere emerge da questi incontri e dai vari articoli che si stanno pubblicando una figura estremamente complessa, ma della quale si mettono in evidenza solamente alcune aspetti che ci sembrano indiscutibili e condivisibili, mentre ne vengono completamente ignorati altri.

Indubbiamente egli fu un protagonista nella ricostruzione morale e materiale del Paese, De Gasperi si poté avvalere del partito che aveva fondato, la Democrazia Cristiana.

E’ stato scritto da Gianfranco Astori sul “Corriere della Sera” che l’uomo politico unì il Paese, dopo una guerra che aveva diviso i territori e la sua gente, lo trasformò da Paese arretrato in una nazione moderna, assicurò la stabilità di governo con la Democrazia Cristiana. Ed è vero anche che la DC fu un partito “nuovo” in discontinuità rispetto alla tradizione murriana e a quella popolare, perché fu “De Gasperi dopo la vittoria alle elezioni del 1948 a impedire alla DC, ad un partito allora giovane e impaziente un errore strategico, optando per il rafforzamento della base di governo in modo pluripartitico, evitando di riproporre, sia pure in un contesto democratico, l’esperienza fascista, di sovrapposizioni del partito allo Stato, meglio, alla Repubblica”. In pratica si sostiene che questo partito non diventò mai un partito Stato.

Ma non mi pare che sia andata proprio cosi, se si tiene conto, invece, di quanto andava sostenendo proprio in quel periodo il costituzionalista Giuseppe Maranini (nato a Genova nel 1902 e morto a Firenze nel 1969), nella lezione inaugurale dell’Anno Accademico dell’Università di Firenze 1949-1950 “Governo parlamentare e partitocrazia” in cui poneva “il problema del partito che controlla e macera lo Stato”, introducendo il termine “partitocrazia” nel dibattito politico.

In pratica il grande giurista sosteneva che con un partito come quello che si era formato, il cittadino è solo. Sopraffatto, non può appellarsi alla forza dello Stato, perché lo Stato si è fatto partitocrazia ed i diritti sanciti ed elencati dalla Costituzione sono vanificati, perché i congegni istituzionali per farli valere sono tutti espropriati da quel «Tiranno senza volto», che è il partito moderno. E sosteneva con convinzione che “Nel momento in cui lo stato in tal modo abdica di fronte al partito, il lungo ciclo evolutivo del sistema costituzionale e poi parlamentare si conclude paradossalmente con il rinnegamento dei suoi principi essenziali […]. Il partito che controlla lo stato, non ne è controllato”.

Questa tesi era sostenuta nello stesso tempo anche da Panfilo Gentile (nato a l’Aquila il 1889 e morto a Roma il 1971) che addirittura coniò l’espressione di «Sottogoverno», per descrivere l’arte di sottomettere gli organi dell’amministrazione dello Stato ai diktat di un preciso gruppo politico, l’arte di accasare fedelissimi, arrivisti e smidollati – i «peggiori» di cui parla Hayek nel classico “La via della schiavitù” – ai vertici di enti statali e parastatali, l’arte del «pubblico mecenatismo», dello scambio di favori, delle sovvenzioni e dei versamenti a una schiera di riviste, settimanali e quotidiani funzionali alla propria narrazione del mondo (nota 1).

Il fenomeno della partitocrazia come degenerazione del sistema politico democratico è tutt’altro nuovo; lo avevano denunciato addirittura nella seconda metà dell’Ottocento, Francesco De Sanctis, Ruggero Borghi, Marco Minghetti. Anche don Luigi Sturzo lo fece in polemica perfino con il suo partito, insieme a Carlo Costamagna, Giacomo Perticone, Lorenzo Caboara.

Ma soprattutto Panfilo Gentile, insieme a Giuseppe Maranini, i due più grandi osservatori politici della democrazia italiana, furono tra i primi ad accorgersi che l’Italia era diventata una partitocrazia, vale a dire un sistema in cui il potere si era trasferito nelle segreterie dei partiti.

A parere in particolare di Gentile c’era stato un fenomeno di rafforzamento e predominio degli apparati dei partiti sui partiti stessi, sul parlamento e sulle stesse strutture dello Stato. Si era venuto creando «un vero e proprio regime», che esprimeva quella che non esitava a chiamare «la degenerazione oligarchica della democrazia». Panfilo Gentile, oltretutto, era convinto che la deriva partitocratica del sistema politico non fosse un fenomeno patologico quanto piuttosto un elemento strutturale delle democrazie di massa. In altre parole, il destino di queste, caratterizzate come sono dall’abbandono dei sistemi elettorali uninominali e dalla presenza di partiti rigidamente organizzati e ideologizzati, era proprio quello di portare alla cristallizzazione degli apparati e delle posizioni di potere secondo una logica che egli non esitava a definire «mafiosa ».

E’ stato anche scritto che i primi governi De Gasperi chiusero la pesante vicenda dei Trattato di pace, difesero i confini al nord e, anzi, con il patto con il ministro degli Esteri austriaco Karl Gruber posero le premesse per una autonomia speciale, allora unica in Europa, riuscì a risolvere la questione del confine orientale. Anche su questi meriti avrei qualche dubbio perché, invece, ci costò, e tanto, l’autonomia dell’Alto Adige e la fissazione dei confini orientali.

E veniamo all’aspetto che secondo me è il più controverso nell’azione del leader democristiano e che è stato del tutto ignorato nelle ultime rievocazioni. Si tratta del ruolo che ebbe lo statista trentino nella secolarizzazione della nostra società e nel cedimento della DC, che lui aveva creato, ad idee moderniste e troppo accomodanti alle mode del tempo. Basterebbe ricordare che Papa Pio XII lo allontanò da sé non solo per non aver voluto allearsi (come gli aveva chiesto) con le destre contro la sinistra, ma anche perché aveva consentito che la DC scivolasse verso impostazioni troppo laiche e lontane da ogni riferimento religioso.

Sotto questo aspetto risulta molto pertinente l’analisi che fece Augusto Del Noce, che fin da allora si opponeva al cattolicesimo democratico, alla secolarizzazione della società che già si intravedeva all’orizzonte. Quello che può essere considerato il più grande pensatore cattolico dell’ultimo secolo non esitò a criticare, nel suo saggio “Totalitarismo e filosofia della storia”, del febbraio 1958, il degasperismo per quel che aveva rappresentato di minimalista e di rinunciatario all’interno del mondo cattolico.

Contemporaneamente scriveva articoli nei quali smascherava l’illusorietà degli aperturisti cattolici di poter utilizzare il socialismo per un recupero di religiosità nella vita italiana ed attaccava il progressismo cattolico che “vorrebbe continuare la resistenza”, partendo da premesse filosofiche del Maritain prima maniera e mutuando criteri di giudizi di tipo laicista, sotto la grande influenza dei vari Pasquale Saraceno (maritainiano convinto e dirigente dei laureati cattolici, che diventerà l’ispiratore di tutta la politica meridionalista), Nino Andreatta (l’economista che, come ministro del Tesoro, successivamente, decretò la liquidazione del banco Ambrosiano) e Ardigò di quella Lega democratica di Scoppola, che poi si impegnerà, in occasione della battaglia referendaria del 1974 a votare ed a far votare a favore del divorzio.

Nel corso di tutta la vita Del Noce del resto si impegnò contro il ruolo negativo giocato dal partito della Democrazia Cristiana nel processo di scristianizzazione e di secolarizzazione della società italiana, contro il dominio culturale ed accademico dei cattolici progressisti, contro tutti quei cristiani che con la loro “scelta religiosa” portarono il cattolicesimo al suicidio.

Basterà ricordare solamente quello che disse in occasione dell’apertura delle Scuole di Dottrina Sociale della Chiesa. «Chi prese il potere in Italia nel ’45? E’ un tempo, si dirà, troppo lontano: Ebbene, io dico che nonostante tutto, chi lo prese allora lo detiene tutt’oggi come potere reale. E chi lo prese allora non è la D.C., quando almeno per D.C. si intenda partito della dottrina sociale cristiana, o della filosofia della storia cattolica. E per potere intendo in primo luogo dominio del costume e dell’opinione», dirà il professore dinanzi a vescovi e cattedratici, giovani e studiosi nel dicembre del 1987. «A partire da queste considerazioni possono venire compresi i vari errori di una notevole parte del mondo cattolico negli anni successivi alla guerra», aggiunse il filosofo.

«Il primo di questi difetti riguarda la scissione tra cultura e politica nella DC, il cui processo sino ad oggi, sino alla vigilia del congresso ha seguito una linea costante di laicizzazione. Ma questa mancanza, mal mascherata, di idealità ultima non poteva non riflettersi in una separazione tra classe politica e paese». Queste sue tesi le volle confermare – si potrebbe dire persino dopo morto – in certi appunti relativi ad un suo intervento ad una tavola rotonda sul “degrado e il senso morale” che il quotidiano “Il Tempo” pubblicò postumi.

«Il rifiuto della morale tradizionale e il permissivismo sono le due facce del liberalprogressismo», per cui, dopo il crollo dei regimi comunisti e la fine delle illusioni marxiste, la nuova «sinistra europea potrebbe avere come sua cultura proprio quel liberalsocialismo che era la tesi del vecchio Partito d’Azione, i cui intellettuali, lasciata la politica pratica, hanno però dominato, durante un quarantennio, nella politica della cultura..».

«Di fronte a un simile nuovo avversario ‑ continuava Del Noce ‑ la DC si trova del tutto impreparata. Impreparazione collegata al processo di laicizzazione, che si è svolto in essa, costantemente, nel quarantennio; e alla formula, affatto falsa ed erronea, della fine delle ideologie»; per questo bisognerà far riferimento «a una cultura che non può che formarsi al di fuori della DC stessa».

(nota1): Scrisse Storia della dottrina del contratto sociale, La concezione etico-giuridica del socialismo, L’Opera di Gaetano Filangieri, L’Essenziale della filosofia del diritto, Il Genio della Grecia, Storia del cristianesimo, Cinquant’anni di socialismo in Italia, e poi i tre volumi sul sistema politico italiano: Polemica contro il mio tempo (1965), Opinioni sgradevoli (1968),  Democrazie mafiose (1969).

*ex senatore di An, già presidente della Commissione Finanze del Senato

 

 

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