
La Casa Bianca accelera
Trump annuncia un piano globale per il dopoguerra a Gaza: “Chiuderemo il conflitto entro l’anno” (video)
Ma l'ira delle famiglie degli ostaggi non si placa. A Tel Aviv si riempiono le piazze, le persone protestano per la mancanza di un accordo. Nella Striscia invece, la Chiesa cattolica e quella ortodossa scelgono di restare: "Non può esserci futuro basato sulla prigionia, sullo sfollamento dei palestinesi o sulla vendetta"
Un «grande incontro» alla Casa Bianca. Un piano per il day after a Gaza. E la promessa che «lo risolveremo in un modo o nell’altro, certamente entro la fine dell’anno». Così, l’inviato speciale per il Medio Oriente Steve Witkoff ha annunciato su Fox News il progetto americano per il futuro della Striscia. Oggi, il presidente Donald Trump siederà a capo del tavolo per discutere quella che il suo ambasciatore ha definito «una visione solida, ben intenzionata, motivata da ragioni umanitarie».
Un piano Usa per il dopoguerra
Parole nette. E nuove. Finora Washington aveva lasciato intendere di voler delegare la questione ai Paesi arabi della regione, mentre lo stesso Trump — già a febbraio — aveva apertamente ventilato l’ipotesi di prendere il controllo diretto di Gaza e procedere al trasferimento permanente dei suoi abitanti. Un’idea che aveva raccolto consensi a Gerusalemme, ma lacerato i rapporti con gli alleati mediorientali, restii a fungere da destinazione dei rifugiati.
#Breaking #Witkoff tells Fox News: meeting on Gaza at the white house on Wednesday #Gaza #Palestine #Resistance @WhiteHouse #USA
📹”We think we’re going to settle this one way or another, certainly before the end of this year.
Hamas is now signaling they’re open to a… pic.twitter.com/rrkKPRRlXh
— ⚡️🌎 World News 🌐⚡️ (@ferozwala) August 26, 2025
La linea Trump: nessuna tregua, niente accordi parziali
Alla domanda se fosse questa la linea ufficiale degli Stati Uniti, Witkoff non usato giri di parole: «È la posizione ufficiale. È la posizione del presidente Trump». È un no secco invece, quello all’ipotesi di accordi scaglionati sul rilascio dei prigionieri israeliani ancora in mano a Hamas. Anche a fronte dell’ultima proposta dei mediatori arabi, accettata formalmente da Hamas il 18 agosto, la Casa Bianca ha fatto un passo indietro, preferendo mantenere allineamento con il governo israeliano.
Trump, del resto, lo aveva già scritto su Truth Social: gli ostaggi rimasti sarebbero stati liberati solo dopo la completa distruzione del gruppo terroristico.
Hamas sotto pressione
Secondo Witkoff, l’organizzazione islamista «ha rallentato il processo» negoziale aggiungendo nuove condizioni, e dunque «la colpa è loro se le delegazioni si sono ritirate». Ma ora, ammette, «Hamas sta segnalando apertura a un accordo». Lo farebbe, sostiene l’inviato, sotto la pressione della nuova offensiva israeliana su Gaza City. Non è chiaro, però, se tale disponibilità cambierà qualcosa nella posizione dell’esecutivo. Netanyahu, almeno pubblicamente infatti, tira dritto. Ha confermato che le Forze di difesa prenderanno il controllo del cuore urbano della Striscia e ha già anticipato un’ulteriore operazione nei campi profughi della zona centrale. I critici fanno notare che aveva già usato toni simili per Rafah, come segnalato dal Times of Israel.
Le famiglie degli ostaggi in protesta a Tel Aviv
Le famiglie degli ostaggi, in protesta permanente a Tel Aviv, temono invece che l’azione militare metta a rischio i prigionieri ancora vivi: «Da 690 giorni il governo porta avanti una guerra senza un obiettivo chiaro», ha dichiarato Einav Zangauker, madre di Matan, ostaggio a Gaza. La piazza è di nuovo in fiamme. Le autostrade bloccate. Il quartier generale della Difesa assediato dai manifestanti. Ma Bibi non cede. Dagli Usa, si riferisce che nel tentativo di mediare e disinnescare la mina delle proteste «Trump ha incontrato quasi tutte le famiglie degli ostaggi israeliani».
La resistenza dei Patriarchi cristiani
E nel mezzo dell’offensiva, in una città bombardata ogni notte, due voci si alzano in controtendenza. Sono quelle dei Patriarchi cristiani: il latino Pierbattista Pizzaballa e il greco-ortodosso Teofilo III. Hanno scelto di restare. Di non evacuare sacerdoti e suore. Di mantenere viva la parrocchia della Sacra Famiglia e la chiesa di San Porfirio. Lo hanno fatto con un comunicato congiunto che riprende le parole di Papa Leone XIV: «Nessun popolo può essere costretto all’esilio con la forza». E aggiungono: «Lasciare Gaza e fuggire verso sud sarebbe una condanna a morte. Non può esserci futuro basato sulla prigionia, sullo sfollamento dei palestinesi o sulla vendetta».
Una scelta di campo, in una terra che da due anni conosce solo bombe, privazioni, demolizioni. Ma anche un messaggio ai governi occidentali: i cristiani non sono un dettaglio folkloristico da proteggere a intermittenza. Sono lì.
La rivolta degli haredim contro la leva
Mentre i tank israeliani avanzano e i caccia colpiscono Shejaia, Sabra, Jabalia, si apre un altro fronte: interno, religioso, e per Netanyahu esplosivo. Gli ultra-ortodossi rifiutano la leva. Circa 80mila ragazzi haredim — tra i 18 e i 24 anni — sarebbero idonei alla chiamata alle armi. Ma i rabbini hanno detto no. E lo Stato ha iniziato a fermare i renitenti come disertori. La tensione monta. Gli arresti si moltiplicano. I controlli all’aeroporto Ben Gurion si fanno capillari. Le unità militari già esistenti di haredim non bastano. E la frattura rischia di far tremare la già fragile maggioranza parlamentare che fa reggere il governo.
Accordi di Abramo: nuovi ingressi all’orizzonte
Non solo Gaza. Non solo Hamas. Witkoff ha rivelato che l’amministrazione Trump sta trattando su tre fronti contemporaneamente: «Russia-Ucraina, Iran, Israele-Hamas — questa settimana stiamo avendo incontri su tutti e tre questi conflitti».
E se l’Arabia Saudita resta fuori dal tavolo, gli Stati Uniti starebbero lavorando per portare l’Azerbaigian negli Accordi di Abramo. Non è un colpo grosso, ma è sufficiente a tenere vivo il dossier. «Stiamo negoziando ingressi multipli», ha confermato Witkoff, evocando una possibile espansione già da maggio.