
Il caso
Mélenchon vuole “abolire” il francese: «Si chiami lingua creaola». Guaino avverte: «Non è una provocazione, ma un disegno preciso»
Secondo il leader de La France Insoumise la lingua nazionale, così come è stata conosciuta finora, ha fatto il suo tempo. Il saggista gli risponde con una lettera aperta: «Desiderate sostituire il popolo francese con un altro popolo e la lingua francese con un'altra lingua»
A fine giugno, durante un simposio all’Assemblea Nazionale sul futuro della Francofonia, Jean-Luc Mélenchon ha scatenato un acceso dibattito proponendo di rinominare la «lingua francese» in «lingua creola», sottolineandone il carattere multiplo, ibrido e universale. Ha sottolineato che il francese «non appartiene più ai francesi», essendo oggi condiviso da 29 Paesi, ed ha incoraggiato a «guardarsi intorno» per comprendere questa dimensione.
A suo dire, solo una lingua concepita come creola, riflesso della storia e di molteplici contatti linguistici (latino, arabo, russo, ebraico, ecc.), può diventare una lingua veramente comune e globale. Le osservazioni di Jean-Luc Mélenchon hanno suscitato forti reazioni, in particolare di Henri Guaino, ex consigliere speciale di Nicolas Sarkozy, considerato come una delle più belle «penne» di Francia.
Durante la campagna presidenziale del 2007 fu l’autore dei principali discorsi di Sarkozy che contenevano molteplici richiami alla storia della Francia da Giovanna d’Arco a Bonaparte da Victor Hugo a Jean Jaurès da Léon Blum a Guy Moquet, e naturalmente a De Gaulle. In precedenza, aveva ispirato la campagna presidenziale di Chirac, nel 1995, coniando la definizione di «frattura sociale» richiamandosi al «gollismo sociale».
Con una lettera aperta su Le Figaro, Guaino risponde al leader di LFI. «Caro Jean-Luc Mélenchon, alcune settimane fa, durante un convegno all’Assemblea nazionale, hai infiammato il dibattito pubblico attaccando la lingua francese. Come sempre, hai trovato il tono e le parole giuste per esasperare i tuoi avversari politici. Nonostante tu stia fingendo di essere arrabbiato per gli attacchi ricevuti, prendi un malizioso piacere nel far arrabbiare i tuoi interlocutori. E funziona. Va detto che non ti tiri mai indietro. L’errore sarebbe non prendere abbastanza sul serio la sfida dietro la provocazione».
«Perché è davvero una sfida – continua Guaino – quella che lanci, a tutti coloro che non si rassegnano a questa visione postnazionale e postrepubblicana che ora porti ad esempio e che è nell’aria tossica che soffia sulle nostre società malate. Hai, come scriveva Camus riguardo all’élite di sinistra della sua epoca, deciso di collocare la tua poltrona in quello che pensi sia il senso della storia, che per te, ormai, si trova nella creolizzazione. C’è, in quello che hai detto, una parte di verità: ogni cultura, ogni civiltà, ogni lingua viva prende spunti dagli altri. Solo le società ermeticamente chiuse non evolvono, ma degenerano, si disidratano nel totalitarismo dei mondi chiusi e crollano al minimo urto proveniente dall’esterno. La difesa disperata della purezza è una tentazione mortifera. Ma, come sempre, tutto è una questione di limiti: quello della capacità di una cultura, di una civiltà, di una lingua di assimilarli, di fonderli in un tutt’uno armonico portando nuova vitalità e trovandovi un nuovo senso. Qui cominciano le nostre divergenze: invece di fondere le parti nel tutto, volete dissolvere il tutto nelle parti. È non è un caso che abbiate usato la parola “sostituzione”: desiderate, come avete detto, sostituire il popolo francese con un altro popolo e la lingua francese con un’altra lingua».
«Pensate che, sia per l’uno che per l’altro, la creolizzazione sia in corso e che nulla possa fermarla. Come tutti i rivoluzionari, sei convinto che la violenza più grande sia sempre quella di chi si oppone alle mode della storia, dimenticando troppo in fretta i grandi crimini che sono stati commessi in suo nome. Vi immaginate come demiurghi della rivoluzione della grande sostituzione attraverso la creolizzazione. Non direi che in voi ci sia una piccola inclinazione autoritaria di tipo bonapartista. I vostri amici, tra l’altro, lo prenderebbero come un insulto. Direi piuttosto che avverto in voi un rapporto con il potere personalistico simile a quello di François Mitterrand, il quale, dopo averla tanto criticata, spiegava, una volta eletto presidente, che la Quinta Repubblica, pericolosa prima di lui, sarebbe tornata ad esserlo dopo di lui».
Per Mélenchon il destino della Francia e quello della lingua francese sono segnati dal fatto che il 40% dei francesi sarebbero già bilingue e dichiara che «non siamo proprietari della lingua francese». Ma Guaino si domanda cosa abbia a che fare il bilinguismo con la creolizzazione. I bilingue non mescolano le loro due lingue per farne una sola. Per le lingue, non ci sono brevetti né diritti d’autore e nessuna opera dello spirito umano appartiene al suo creatore: l’umanità se ne impossessa e ne fa ciò che vuole.
Guaino non crede che Marx si sarebbe riconosciuto nell’Unione Sovietica, né Nietzsche nel nazismo, né che Sofocle riconoscerebbe la sua Antigone in tutte le rappresentazioni che se ne sono fatte dopo di lui. Negli Stati Uniti, non si parla esattamente l’inglese come in Inghilterra. In Canada, nei Caraibi, nel Pacifico, in Africa, non si parla esattamente il francese come in Francia. Questo non è un motivo per abolire l’Accademia francese. Se la Francia non è più proprietaria del francese di quanto l’Inghilterra lo sia dell’inglese, essa ne è la matrice. Questo impone il dovere di mantenere una lingua di riferimento, di accompagnare la sua evoluzione in modo ordinato, senza brutalità, senza rotture, senza strappi, preservando il suo genio, la sua logica, la sua armonia.
Lasciamo che il francese si sfaldi e presto partorirà un «globish» globalizzato. Guaino ricorda le parole di Michelet: «La storia della Francia inizia con la lingua francese». Potrebbe benissimo finire con essa. Non è ciò che vogliono i francofoni di tutto il mondo. Un giorno, Aimé Césaire chiese ad una madre di famiglia della Martinica se fosse contenta che i suoi figli potevano imparare il creolo a scuola. Con grande sorpresa, la madre di famiglia rispose, infastidita: «Non mando i miei figli a scuola perché imparino il creolo, ma perché imparino il francese!».
Césaire e Glissant scrivevano in francese poesie martinicane e Senghor, poesie africane. Importavano parole, ne inventavano, grazie alla licenza poetica. Arricchivano senza decostruire. Senghor entrò all’Accademia francese dicendo: «C’è un pericolo di arricchimento disordinato, ed è per questo che c’è l’Accademia francese». Guaino se la prende con la scrittura inclusiva che si diffonde nell’amministrazione e nelle università: «Riscrivete le favole di La Fontaine, le poesie di Verlaine o I miserabili in scrittura inclusiva e forse capirete cosa significa distruggere una lingua. Anche la femminilizzazione selvaggia dei nomi di funzione rischia di rompere l’armonia della lingua».
Guaino sostiene che, privando una parte crescente della nostra gioventù delle parole e della sintassi indispensabili per farsi capire, non le lasciamo altro che la violenza per esternare ciò che prova. Nata dal genio di un’intera Nazione e dalla volontà dello Stato, la lingua francese si disgrega con il disfacimento dello Stato e della nazione. È lo Stato che ha permesso lo sviluppo del francese così come lo conosciamo, da quando Francesco I firmò a Villers-Cotterêts, nel 1539, l’editto che lo rendeva obbligatorio per tutti gli atti giuridici, fino a quando Richelieu creò l’Accademia, e Jules Ferry lo rese la lingua unica della scuola.
La cultura è sempre stata un grande tema politico. Guaino si oppone ad una politica di diluizione multiculturale e rivendica una politica di affermazione di ciò che c’è di meglio nella cultura francese anche a costo di essere dipinto come un reazionario. Nel suo ultimo libro La settima volta i muri caddero, Guaino cita Jules Michelet: «L’Inghilterra è un impero, la Germania un Paese, la Francia una persona» e questa persona è diventata un attore della storia. La vera Francia è il susseguirsi dei suoi giorni, delle sue notti, delle sue albe, dei suoi crepuscoli, dei suoi tramonti; questa idea mantiene sempre uno stretto rapporto con la geografia, i rilievi, il clima. I francesi condividono le stesse fondamenta di cultura e civiltà che oggi i demolitori di statue vogliono rovesciare.
La Francia ha un suo modo di pensare che non si può racchiudere nel mercato unico globale senza confini, dove tutti i consumatori avrebbero gli stessi gusti, gli stessi desideri, gli stessi bisogni. La Francia è un essere vivente la cui gestazione è stata lenta, la cui nascita è stata dolorosa, la cui sopravvivenza è sempre stata incerta e la cui educazione è sempre stata incompleta. Identità non significa «eternamente congelata», ma «continuità». L’identità condivisa è ciò che permette ad un popolo di continuare a riconoscersi come tale attraverso le vicissitudini della storia e le metamorfosi insite nella vita. La Francia è una Nazione e una Patria. La Patria è il corpo, la Nazione è l’idea.
Guaino ricorda le parole di André Malraux che non nascose la sua emozione durante l’inaugurazione di Brasilia, nel 1960, quando, in mezzo a bambini che rappresentavano delle scene della storia di Francia, aveva visto Giovanna d’Arco, interpretata da una ragazzina: «Giovanna d’Arco è apparsa; una bambina di quindici anni, su una graziosa pira di bengala, con il suo stendardo, un grande scudo tricolore e un berretto frigio. Ho immaginato il sorriso emozionato di Michelet o di Victor Hugo. Nel gran frastuono della fucina in cui la città si stava forgiando, Giovanna e la Repubblica erano entrambe la Francia, perché entrambe erano l’incarnazione dell’eterno richiamo alla Giustizia. Come le antiche dee, come tutte le figure che si sono succedute, Giovanna ora incarna e magnifica i grandi sogni contraddittori degli uomini. La sua commovente immagine tricolore ai piedi dei grattacieli dove i rapaci venivano ad appollaiarsi era la santa di legno eretta sulle strade dove le tombe dei cavalieri francesi si trovano accanto a quelle dei soldati dell’Anno II».
Nel saggio La notte e il giorno, Guaino precisa il suo concetto di identità: ci sono cose che a prima vista non sembrano importanti, e che invece sono molto rivelatrici. Prendiamo ad esempio la parata del 14 luglio. Non sembra granché, ma rappresenta secoli di sforzi, secoli di disciplina, secoli di sacrificio. Sono i cavalieri francesi, i soldati dell’Anno II, quelli delle guerre dell’Impero, di Verdun, di Bir Hakeim. Sono secoli di sangue versato per la giustizia, per la libertà, per la Patria. Sono secoli di lavoro di una civiltà che ha sempre onorato chi ha combattuto per essa. Onore e Patria; il giorno in cui queste due parole non toccheranno più il cuore di alcun francese, il giorno in cui saranno diventate incomprensibili per la maggioranza dei francesi, la Francia non esisterà più. Il giorno in cui i corpi dei soldati caduti per la Francia raggiungeranno nell’indifferenza la loro ultima dimora, la Francia non esisterà più.