
L'etica cucita male
Il greenwashing cinese alla sbarra: un milione di multa a Shein per pubblicità ingannevole
Sotto accusa i claim ambientali del colosso cinese del fast fashion: tra promesse di riciclo mai mantenute, emissioni in aumento e una trasparenza che resta solo una falsa bandiera
La Cina parla il linguaggio dei diritti solo quando le conviene, o forse quando è al tavolo con socialisti come Pedro Sánchez. Quando invece si tratta di fare profitti – miliardari – sulla pelle dei bambini e a danno dell’ambiente, allora preferisce restare in silenzio. Shein, colosso del fast fashion cinese, ne è l’ennesima incarnazione. Ma oggi, con una multa da un milione di euro, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato solleva il velo su quello che definisce senza mezzi termini un caso di greenwashing.
Claim ecologici vaghi, fuorvianti, non verificabili
La società sanzionata è la Infinite Styles Services Co. Ltd, base europea del marchio, accusata di aver costruito una narrazione ecologista del tutto scollegata dalla realtà industriale dei suoi prodotti. Le sezioni del sito «#SHEINTHEKNOW», «evoluSHEIN» e «Responsabilità sociale» ospitano – secondo l’Agcm – «asserzioni ambientali false o quanto meno confusionarie», che possono «indurre i consumatori a ritenere non solo che la collezione ‘evoluSHEIN by Design’ sia realizzata unicamente con materiali ecosostenibili».
La realtà? Secondo l’Authority, quei capi non risultano «veritieramente riciclabili», per via «delle fibre utilizzate e dei sistemi di riciclo attualmente esistenti». E quei proclami sulla «progettazione di un sistema circolare»? Ingannevoli anch’essi.
“Responsabilità sociale” a parole, emissioni in aumento
Non si salva nemmeno la parte relativa all’impegno sociale del sito, dove Shein annuncia la riduzione delle emissioni del 25% entro il 2030 e il loro azzeramento entro il 2050. Secondo l’Antitrust, però, questi obiettivi sono «presentati in maniera generica e vaga, risultando addirittura contraddetti dall’incremento delle emissioni di gas serra dell’attività di Shein per gli anni 2023 e 2024».
La condanna si fonda su un principio che – se applicato davvero – taglierebbe le gambe a buona parte della retorica industriale cinese: «un maggior dovere di diligenza» grava sulle aziende «che operano in un settore e con modalità altamente inquinanti», come la moda a basso costo, il cosiddetto fast e super fast fashion. Un modello basato sull’iperproduzione, lo sfruttamento della manodopera e un marketing costruito ad arte per abbindolare chi cerca il “capo green” da indossare a cuor leggero.
Una stangata che arriva nel momento meno opportuno
Per Shein, la sanzione dell’Agcm arriva in una fase di evidente appannamento. Il 2024 ha portato sì un fatturato di quasi 38 miliardi di dollari, ma anche un crollo dell’utile netto del 40%, fermandosi a circa un miliardo. Per una macchina costruita su margini esorbitanti e rotazione continua di merci, è un segnale. I mercati – come i consumatori – iniziano a domandarsi cosa ci sia dietro lo scintillio degli outfit a pochi euro.
Nel frattempo, l’Ipo — offerta pubblica iniziale — resta sospesa. Prima sognata a Londra, ora negoziata a Hong Kong. Ma la valutazione – che nel 2022 aveva sfondato la soglia dei 100 miliardi – oggi fluttua tra i 30 e i 50. Nessuna certezza, molti dubbi. L’aria attorno al colosso cinese si è fatta pesante. E l’Europa, almeno in questo caso, ha avuto il coraggio di chiamare le cose con il loro nome.
Il diavolo travestito da agnello
Dietro l’ossessione per la sostenibilità, Shein ha nascosto l’opacità. Dietro le fibre riciclabili, le scorciatoie ambientali. E dietro i proclami sulla responsabilità sociale, l’assenza di riscontri concreti. Nulla di nuovo per chi osserva da anni il modello cinese: esportazione di merci, occultamento delle responsabilità, sofisticazione della verità e ovviamente invasione dei mercati europei. Ma il fatto che l’Italia abbia aperto la strada a una nuova stagione di rigore sul greenwashing è un segnale da non sottovalutare.
Perché il nemico dell’ambiente – e della trasparenza – non veste solo l’uniforme del petroliere o dell’industriale inquinatore. Talvolta indossa gonne a fiori e slogan “green”. Ma il vizio resta lo stesso: quello di piegare i diritti al profitto.