
Il cantanta "in ostaggio"
I pro-Pal dichiarano guerra anche sul web a Jovanotti, al rogo per non aver pronunciato la parola “genocidio” a Gaza
Dopo il suo appello alla tregua al No borders music festival, Lorenzo Cherubini viene travolto dagli attacchi per non essersi schierato sulla guerra a Gaza. Trincia, Lucarelli e i custodi del verbo lo accusano: "Non può stare da entrambe le parti"
«Non ho niente di intelligente da dire su quello che sta succedendo. E siccome non ho niente di intelligente da dire, non dico niente. Prego, spero e mi auguro che questa follia ci insegni qualcosa». Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, ha osato dire questo. Tanto è bastato. Al No borders music festival, davanti a cinquemila persone giunte in bicicletta tra le vette delle Alpi Giulie, l’unico concerto estivo del cantautore è diventato il teatro involontario di un’altra guerra. Non quella in Medio Oriente – che pure era il convitato di pietra della serata – ma quella, più sordida, contro la libertà di pensiero.
“Per chi faccio il tifo? Per entrambe le parti”
Sul palco Jova si è rivolto al pubblico vedendo una bandiera palestinese. Lo ha fatto senza slogan, senza retorica, senza la livrea d’ordinanza dei nuovi cantori militanti. Ha detto: «Per chi faccio il tifo? Per entrambe le parti, non è una questione di tifoseria. Io sono tifoso solamente per sostenere la pace, la tregua». Una frase limpida. Onesta. Persino troppo umana per piacere a chi pretende posizionamenti in un campo minato.
Poi ha aggiunto: «Prego, spero e mi auguro che questa follia ci insegni qualcosa».
Il pensiero libero non è un algoritmo
«È l’unica cosa che sono in grado di sostenere con il mio modo di intendere la vita». Un tempo, forse, un’affermazione simile sarebbe stata considerata un atto di prudenza, di umiltà persino. Oggi invece è diventata un reato d’opinione. Il reato di non avere l’hashtag giusto, una parola chiave prescritta, una verità da esibire come certificato morale. Oggi non si può più semplicemente auspicare la pace. È troppo poco, troppo incerto, troppo “neutro”. Ed è nella neutralità, non nella menzogna, che il totalitarismo odierno fiuta la minaccia.
Perché? Perché bisogna aderire, bisogna dichiararsi. E non importa se sei artista, filosofo o gelataio. Non importa se sei in montagna senza wi-fi: se non dici “genocidio”, sei fuori.
Processo social
Pablo Trincia, giornalista e autore, ha dato il via alle danze inquisitorie: «Sono decenni che ascolto e apprezzo le tue canzoni e quasi due anni che aspetto proprio dagli artisti come te una sola parola su quello che accade a Gaza». Segue la stoccata: «Ora capisco che quel ‘Il mio nome è Mai Più’ che cantavi oltre un quarto di secolo fa era solo una frase priva di significato». E conclude, con la parte dell’amico deluso: «Mi dispiace davvero tanto».
Poi è il turno di Selvaggia Lucarelli, custode delle ortodossie mediatiche: «Intelligente com’è, potrebbe dire cose intelligenti… Si sta consumando un genocidio. Non si può essere pavidi. E no, non è da entrambe le parti». A giudicare dalle reazioni, è obbligatorio allinearsi alla narrazione più chiassosa. Quella dell’unica colpa, dell’unico male, dell’unico vocabolario ammesso. Guai a dire “entrambi”. Guai a non dire “genocidio”. Mai sentirsi “ostaggio”. «Ostaggio della loro presunta buona coscienza unica, più che altro presuntuosa, che non ammette divergenze», come ha ben scritto Maurizio Crippa sul Foglio.
Il nuovo catechismo dell’intellettuale utile
C’è qualcosa di sinistramente religioso – in senso inquisitorio – in questo meccanismo. La “confessione” arriva, come sempre, qualche giorno dopo. Jovanotti pubblica un post più articolato: «In questi giorni ho ricevuto critiche, ironie, insulti. Chi mi conosce lo sa: non ho mai evitato di prendere posizione, nessuna neutralità. Il prossimo passo deve essere la tregua, la fine di questa follia».
Poi affonda: «L’esercito israeliano ai comandi di questo governo criminale è ormai fuori controllo. Quello che sta accadendo a Gaza è atroce. Le bombe israeliane sui civili si devono fermare. Non è autodifesa. Non è giustizia». Non c’è la parola “genocidio”. Ma c’è il senso di una richiesta imposta, il sapore sgradevole dell’autodafé digitale. Quasi una correzione di rotta dettata non dalla coscienza, ma dall’urgenza di restare “nel giro”.
Non è il cantautore sotto accusa. È la libertà di dire “non so”
Nel paese dove si accetta qualsiasi forma di superficialità purché gridata con convinzione, il peccato mortale è diventato astenersi dal brusio. Ammettere di “non aver niente di intelligente da dire” è oggi un atto di eresia. Meglio improvvisarsi tuttologi, brandire parole totem come “genocidio” o “antifascista”, accusare e condannare a colpi di reel. Tanto a che serve sapere? Basta schierarsi. Non importa se non si conosce Gaza da prima di ottobre 2023. È l’algoritmo a dettare la moralità del momento.
Ma un artista non è un algoritmo. E Jovanotti, con tutta la sua ingenuità sincera, la sua voglia di vita e la sua distanza da ogni conformismo, ha detto qualcosa che molti non riescono più neppure a pensare: che esistono cose talmente complesse da meritare il silenzio, la preghiera, la sospensione del giudizio.