
Tesi sinistre
Giorgia, Marine e Alice: chi dice leader donna dice destra, ma ai radical chic proprio non va giù
Quando la sinistra non ha argomenti allora inventa. E aziona la macchina del fango, trasformando leader scelte democraticamente dagli elettori in un "trucco rassicurante" per rendere accettabile "la retorica palesemente aggressiva del post-fascismo"
C’è un riflesso condizionato nella pubblicistica di sinistra: ogni volta che una donna conquista la leadership in un’area politica non gradita, il fatto viene trasformato in sospetto. È accaduto di nuovo. Giorgia Meloni, Marine Le Pen, Alice Weidel sono state descritte dalla penna di La Stampa, Francesca Santolini, come «volti rassicuranti» di ideologie pericolose, un maquillage per rendere accettabile l’«estrema destra» e «la retorica palesemente aggressiva del post-fascismo». Secondo questa lettura, senza di loro le «idee sarebbero respingenti»; con loro, diventano accettabili.
La leadership femminile è un fenomeno globale
Osservando senza lenti ideologiche, emerge un quadro diverso. L’ascesa femminile al vertice politico non è un’anomalia reazionaria, ma un fenomeno globale. La socialdemocratica Mette Frederiksen guida la Danimarca con politiche migratorie più severe di molte capitali di destra. Ursula von der Leyen è la donna più potente dell’Ue. In Nuova Zelanda, Jacinda Ardern ha saputo imprimere una forte impronta personale alla politica nazionale, mentre in Finlandia Sanna Marin ha guidato il Paese attraverso crisi complesse, e in Messico e in Messico la presidente Claudia Sheinbaum è più battagliera che mai. Persino in contesti privi di davvero democrazia, come la Corea del Nord, si prepara la successione della figlia di Kim Jong-un.
Il doppio standard
Sostenere che ovunque si tratti di una strategia per abbindolare le masse significa applicare un doppio standard: la donna di sinistra sarebbe leader per merito, quella di destra per marketing politico. È un punto cieco che impedisce di riconoscere come la leadership femminile non abbia un colore obbligato, e che consenso e competenza non si dissolvono in base alla collocazione politica.
La macchina del fango
Si invoca la teoria del «femonazionalismo» per bollare come strumentale qualunque richiamo alla tutela delle donne se proviene dall’area conservatrice. Nessuno, però, sottolinea che le stesse argomentazioni, quando avanzate da governi progressisti contro pratiche oppressive di culture straniere, diventano «difesa dei diritti umani».
Nei contesti di destra, le donne accedono al comando senza presentarsi come eccezioni da proteggere o trofei di parità da esibire. In certi ambienti progressisti, invece, il rispetto formale si accompagna a un paternalismo strisciante, con il potere saldo in mani maschili che premiano fedeltà più che indipendenza.
La questione di fondo
Ridurre Meloni, Le Pen o Weidel a «volti di copertura» significa ignorare che oggi l’elettorato vota per una visione, non per un genere. La destra, nel bene e nel male, ha integrato la leadership femminile nella propria architettura senza relegarla a ornamento. Forse è questo, più che l’ipotetico potere seduttivo sull’opinione pubblica, a disturbare certi osservatori.
La caricatura progressista
Basterebbe infine guardare a certe produzioni culturali per capire la distanza: The Regime, political comedy-drama con Kate Winslet, è la rappresentazione perfetta della mappa mentale liberal progressista. Una satira dichiarata, ma anche la dimostrazione plastica di come la sinistra woke vede la destra: un pastiche grottesco, incapace di cogliere la complessità reale di chi governa e utile solo a confermare una caricatura rassicurante per chi la produce.