
La pax trumpiana
“Date il Nobel per la pace a Trump”: il leader azero ringrazia il presidente Usa per lo storico accordo con l’Armenia
A Washington, ieri, la stretta di mano tra il leader azero Ilham Aliyev e il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha chiuso una ferita aperta da trentacinque anni. Armenia e Azerbaigian hanno firmato, con la regia di Donald Trump, un accordo che pone fine al conflitto sul Nagorno-Karabakh e apre un corridoio strategico tra i due Paesi: la Trump route for international peace and prosperity (Tripp). Un nome che non è solo marketing politico, ma la sintesi di un disegno geopolitico che ridimensiona Russia e Iran nel Caucaso meridionale e restituisce agli Stati Uniti il ruolo di arbitro nella regione.
Trump e il Nobel per la pace: “Chi, se non lui?”
«Chi, se non il presidente Trump, merita il Premio Nobel per la Pace?», ha detto Aliyev, annunciando insieme a Pashinyan l’intenzione di presentare una candidatura ufficiale. The Donald, davanti alla platea della Casa Bianca, ha scandito: «Hanno combattuto per trentacinque anni, ora sono amici e lo saranno per molto tempo. Adesso potranno veramente vivere e lavorare insieme».
La pax trumpiana e il silenzio della sinistra
Questo accordo si aggiunge a una lista che, nel giro di sei mesi, ha visto il tycoon chiudere o disinnescare crisi: dalla normalizzazione dei rapporti tra Cambogia e Thailandia al cessate il fuoco tra Congo e Ruanda, fino alla fine della guerra dei dodici giorni tra Iran e Israele e, forse presto — dopo l’incontro in Alaska previsto per Ferragosto — anche di quella in Ucraina. Risultati che, se fossero arrivati da un presidente progressista, verrebbero celebrati con prime pagine, editoriali e premi.
Invece, la sinistra continua a urlare “Trump folle”, evitando accuratamente di riconoscere il metodo. Eppure, arrivare alle elezioni di metà mandato con una serie di paci siglate e con un picco positivo delle entrate dai dazi, è una mossa che ogni stratega politico definirebbe impeccabile.
Un colpo geopolitico che brucia a Mosca e Teheran
Il Tripp attraverserà una stretta regione armena, garantendo agli Stati Uniti diritti esclusivi per novantanove anni. Un’infrastruttura che unisce ferrovia, pipeline e fibra ottica, e che, nelle parole di un alto funzionario dell’amministrazione, «ha vincitori e vinti: i vincitori sono l’Occidente; i perdenti qui sono Cina, Russia e Iran».
Mosca accusa Washington di «dirottare il processo di pace armeno-azero», mentre Teheran avverte che non tollererà modifiche alla sua frontiera settentrionale. Reazioni che confermano quanto questo accordo incida sui tradizionali equilibri di potere. La Russia, distratta dall’Ucraina, ha perso il monopolio di mediatore nella regione. L’Iran vede l’ombra americana a ridosso del suo confine.
Dal Karabakh all’asse energetico occidentale
Il valore del corridoio Trump va oltre la riconciliazione. Collega il Caspio al Mediterraneo e aggiunge un tassello alla moderna Via della Seta alternativa a quella cinese. Offre a Washington un punto d’appoggio strategico senza basi militari e apre nuove rotte energetiche svincolate da Mosca e Pechino. Per l’Azerbaigian è un accesso diretto a Nakhchivan, per l’Armenia la possibilità di rompere l’isolamento storico.
«Volteremo pagina rispetto allo stallo, al confronto e al sangue versato, offrendo un futuro luminoso e sicuro per i nostri figli. Sono molto felice perché oggi stiamo scrivendo una grande nuova storia», ha dichiarato Aliyev. Pashinyan ha parlato di «un traguardo significativo che getta le basi per scrivere una storia migliore di quella che abbiamo avuto in passato».
La pax trumpiana
Trump non ha inventato la diplomazia, ma la applica con l’istinto del negoziatore e la determinazione del leader che non teme di farsi odiare dagli avversari. In sei mesi ha chiuso più fronti di quanti altri presidenti siano riusciti a trattare in un intero mandato. I sinistri media e politici nostrani possonocontinuare a ripetere lo slogan del “pericolo Trump”. Ma quando persino i leader di due paesi nemici storici per decenni si uniscono per candidarlo al Nobel, il problema non è la pace di Trump: è l’incapacità ideologica di ammetterla.