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Giulio Base

L'intervista

«Sono fiero del film su Almerigo Grilz. Paura? All’inizio. Ma non mi faccio sottomettere dal conformismo». Parla Giulio Base

Il regista di "Albatross" racconta i timori per la «patata bollente» che gli era stata proposta: «È un film politico, per certa intellighenzia non avrei dovuto farlo. Invece è stato giusto: basta cercare spettri neri, io sono un partigiano della riconciliazione»

Speciali - di Annamaria Gravino - 4 Luglio 2025 alle 08:57

«Con i miei figli ci gioco, dico: forse non lavorerò più. Ma la verità è che sono un po’ orgoglioso di questo piccolo atto di coraggio. Ho 60 anni e voglio dire quello che penso». Giulio Base la mette giù scherzando e minimizza. Il “piccolo atto di coraggio” è aver scritto e diretto Albatross, il film – nelle sale dal 3 luglio – sulla vita del giornalista triestino Almerigo Grilz, primo inviato di guerra italiano a morire sul campo dalla fine del secondo conflitto mondiale: era il 1987, aveva 34 anni e stava filmando in Mozambico gli scontri tra guerriglieri della Renamo e governativi del Frelimo. Di coraggio in realtà per raccontare questa storia ce n’è voluto parecchio: Grilz, prima che «inviato indipendente», è stato un militante del Fdg e un dirigente del Msi. Per questo è stato oggetto negli anni di una ostinata damnatio memoriae e poi di una feroce campagna di denigrazione. In questa cornice, Base nel 2019 si è visto arrivare dalla casa di produzione One More Pictures, che ha prodotto il film insieme a Rai Cinema, la «patata bollente» della proposta sulla pellicola e ha pensato: «O mamma, mi volete rovinare».

Partiamo da lì, nel 2019 le è arrivata la proposta per il film e…
«Ho googlato velocemente e mi sono detto: perché proprio a me? All’inizio temevo che fosse un film divisivo, sappiamo bene che c’è questa tendenza a mettere ai margini determinate scuole di pensiero e poi si viene additati come strumenti di chissà quali poteri, stupidamente».

Cosa l’ha spinta a superare le reticenze iniziali?
«Le richieste di informarmi, di capire. E il fatto che ho un carattere un po’ ribelle: non mi faccio sottomettere dal conformismo. Ho iniziato a leggere, a studiare e ho notato che davvero questo giovane uomo era molto speciale. Mi colpivano le sue doti poliedriche. Da ragazzino aveva vinto dei premi letterari, disegnava in maniera prodigiosa, era un giornalista di qualità riconosciuta, aveva un’attitudine politica da indiscusso leader. Aveva tante qualità. Per quale motivo dovevo avere paura di raccontare una storia così? “Non abbiate paura…”. E alla fine mi sono detto: ok, mi butto. Mi sono messo a cercare Grilz, a cercare l’uomo, non solo il giornalista, e da lì è venuto il resto: nel 2023 siamo andati sul set e ora siamo nelle sale. Oggi sono fiero di aver fatto questo film».

Ha detto che si aspetta attacchi e ha raccontato che qualcuno già lo ha ricevuto, anche se privatamente.
«Sì, in un messaggio mi hanno paragonato a Leni Riefenstahl».

La Riefenstahl, al di là delle questioni ideologiche, ha dato un contributo fondamentale alla storia del cinema…

«È stata una gigantessa del cinema e non a caso le hanno dedicato molte retrospettive, anche in ambienti prettamente di sinistra. Il film può non piacere, ci mancherebbe altro, ma io auspico che non ci siano attacchi pregiudiziali».

Perché era giusto fare questo film?
«Per tanti motivi. Uno perché trovo ingiusto che una figura di questo tipo non fosse ricordata, mentre suoi colleghi proprio perché non appartenenti a quella scuola di pensiero lo sono stati. Penso a Ilaria Alpi, a Maria Grazia Cutuli. Attenzione, non dico che non fosse giusto ricordare loro, lo era eccome. Dico che era ingiusto non ricordare Almerigo. È una storia molto bella, penso anche di sprone per i giovani. In fondo, quella di Almerigo con Fausto Biloslavo e Gian Micalessin è la storia di tre ragazzi squinternati che s’inventano un’agenzia di stampa. A me sono venuti in mente Steve Jobs e il garage in cui è nata Apple o Mark Zuckerberg che crea Facebook nella sua cameretta. Mi parevano un bell’esempio di messa in moto, se non proprio di imprenditoria».

Lei in conferenza stampa ha parlato anche di una voglia di indicare la strada del dialogo.
«Io mi sento un partigiano della riconciliazione, mi sembrava un’occasione buona per cercare di pacificare, di arrivare a una normalizzazione per smetterla di pensare che qualcuno incarni lo spettro nero. Volevo proporre una riflessione sul rispetto».

Albatross è un film politico?
«Certamente lo è. Come si diceva? Tutto è politica. La patata bollente scottava proprio per questo. Se lui avesse avuto qualunque altra attitudine, non ci sarebbe stato spazio per avere paura. Era l’attitudine politica che mi ha intimorito all’inizio. Lo considero un piccolo atto di coraggio perché c’è una sedicente intellighenzia che la pensa sempre così: che questo film non dovevo farlo. Ma Giannini mi ha dato un suggerimento valido: futtitenn».

Nel film lei racconta gli anni ’70 facendo prevalere lo slancio vitalistico dei ragazzi sul clima cupo dell’epoca. Immagino sia stata una scelta precisa.
«Assolutamente sì. Gli anni ’70 si possono raccontare attraverso tante prospettive, io ho scelto questa. È stata una frase di Toni Capuozzo (che ha ispirato Vito, il personaggio di fantasia interpretato da Giannini, ndr) ad accendere questa idea. Nell’introduzione a un libro su Grilz parlava degli scontri tra opposte fazioni come di “scaramucce”. È un termine che non rimanda alle Brigate rosse, a omicidi come quello di Ramelli, ad Aldo Moro, alla strage di Bologna. Questo c’è stato, nel film i punti fermi sono raccontati. C’è stata la deriva bellica e stupida di alcune frange, come c’è stato chi non si impegnava, ma la stragrande maggioranza dei ragazzi faceva politica con altri sentimenti. Questo mi ha interessato. Per questo nella prima scena, quella degli scontri ho messo una musica da “come eravamo”. La realtà non va guardata in modo monodimensionale, non solo è sciocco, è sbagliato. Lo stesso Almerigo, che militava a destra, si atteggiava come molti giovani di sinistra. Quel suo viaggio in giro per l’Europa, vendendo collanine e disegni, era un po’ da figlio dei fiori. C’era qualcosa che accomunava tutti i ragazzi e qualcosa che li divideva, ma di fondo c’era una forte gioia di vivere che non si può cancellare. Non si può dipingere un’epoca con il solo colore del piombo».

Perché secondo lei, invece, di quegli anni c’è per lo più una lettura monodimensionale?
«Perché parte dell’informazione, anche a livello alto, è molto simile al mio Vito Ferrari. Più o meno tutti i grandi giornalisti hanno avuto quel percorso, ci raccontano il Paese dal loro punto di vista e noi li ascoltiamo. Ma le cose dipendono da come le guardi. Non ho una risposta esatta, ma ho scelto di togliere angoscia, tragicità, perché non ci credo che la vita delle persone, pur con tutto quello che succedeva, si fermasse a questo. È una visione pessimista, frutto di una scuola di pensiero nichilista dalla quale sono lontano anni luce. Io sono sempre stato attratto dal sole, dalla luce, dalla gioia. Gli eventi tragici ci sono stati, ma è il dinamismo, la voglia di fare che ci manda avanti».

Lei ha detto che a un certo punto ha temuto di essersi fatto prendere un po’ la mano dall’affetto nei confronti del personaggio di Grilz. Cos’è che gliel’ha fatto sentire più vicino?
«Il fatto che fosse una sorta di uomo del rinascimento, aveva tanti talenti. Poi quando ti avvicini a un personaggio, lo studi, arriva un avvicinamento empatico. Anche Scurati che sono anni che studia il suo M, per quanto lo voglia criticare, alla fine è arrivato a un avvicinamento empatico. Non dico simpatia, ma empatia. Poi Almerigo era pure simpatico, figuriamoci».

Però nel film ha voluto dare conto, attraverso un personaggio che interpreta lei stesso, anche delle accuse che gli sono state mosse nel tempo.
«Ho pensato che altrimenti avrebbero appeso anche me in piazza a Milano… E che era giusto pareggiare, raccontare anche le critiche. Non ho rimosso niente, in quel monologo ho dato conto di tutte le possibili critiche, sono stato addirittura più realista del re, facendo parlare il mio personaggio di quell’articolo che sarebbe la prova del fatto che Almerigo non ha mai abiurato. In realtà non si trova, ma io l’ho messo lo stesso come se fosse vero, sia per estrema cautela sia perché pensavo che quel personaggio l’avrebbe detto e detto in quei termini. Ce l’ho messa tutta per non fare propaganda e mettere sul piatto dello spettatore tutto quello che c’era intorno ad Almerigo. Del resto, come ci insegna Pirandello e come dice Vito nel film: la verità è sempre multiforme».

Ma se Grilz fosse stato un iscritto alla Fgci si sarebbe fatto tutti questi problemi?
«No, certamente no. E probabilmente il film avrebbe avuto un lancio molto più grande. Questa è una cosa che non si può negare e se qualcuno la nega è in cattiva fede. A me fa piacere che sia stato fatto un film come “Berlinguer”, ma è innegabile che alcune pellicole hanno una visibilità esorbitante. È evidente che, gramscianamente parlando, quella egemonia culturale che aveva altissima dignità è stata da molti, se non da tutti, interpretata in maniera sciatta, come se uno si mettesse la maglia di Messi e pensasse per questo di essere il giocatore più forte del mondo».

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di Annamaria Gravino - 4 Luglio 2025