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Quel capitalismo che “fabbrica” cultura ed estetica: il racconto iconico di Civiltà delle Macchine

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Quel capitalismo che “fabbrica” cultura ed estetica: il racconto iconico di Civiltà delle Macchine

Marco Ferrante ripercorre l'epopea di "Civiltà delle macchine", una rivista pensata per tenere insieme scienza e umanesimo, tecnica e filosofia. Una convergenza che oggi si fa fatica a concepire senza increspature. Ma negli anni Cinquanta, invece, la classe dirigente italiana aveva ben altre ambizioni e puntava in alto

Cultura - di Fernando Massimo Adonia - 20 Luglio 2025 alle 07:00

Una rivista pensata per tenere insieme scienza e umanesimo, tecnica e filosofia. Una convergenza che oggi si fa fatica a concepire senza increspature. Ma negli anni Cinquanta, invece, la classe dirigente italiana aveva ben altre ambizioni e puntava in alto. Anzi, altissimo. Anche per questo «Civiltà delle Macchine» – sì, l’house organ di Finmeccanica, società finanziaria dell’Iri – ha lasciato una traccia indelebile all’interno della storia della stampa periodica nazionale. Una vicenda che Marco Ferrante, giornalista dal curriculum di peso, ha voluto ricapitolare con il saggio Cultura e imprese, un caso italiano. Breve storia di «Civiltà delle Macchine» per i tipi di Quodlibet, la casa editrice fondata da un manipolo di allievi del filosofo Giorgio Agamben.

Un capitalismo illuminato

Anche Ferrante è uno dei protagonisti di una testata che ha attraversato più di settant’anni del vissuto editoriale italiano, avendola diretta dal 2021 al 2025. Le copertine, infatti, rientrano di diritto tra le pagine dei manuali di storia dell’arte contemporanea e sono esposte all’interno del museo di Cassa depositi e prestiti. Ma non solo. Prima dell’estetica, però, è la sostanza a giocare un ruolo fondamentale nel racconto di «Civiltà delle Macchine».

A fondarla è stato, nel 1953, Giuseppe Luraghi: un «manager umanista, tecnico e generalista». Nato in Pirelli, è stato l’uomo che ha fatto grande l’Alfa Romeo: a lui si deve, per intenderci, il lancio dell’ormai iconica Giulietta. Tenacemente convinto che l’imprenditoria dovesse avere anche un compito extra-industriale, fu il visionario che «puntò a rappresentare una coscienza avanzata dell’industrialismo anche nella sua espressione estetica e nella base filosofica del suo ruolo».

L’industria come fatto estetico e filosofico

Ad affiancarlo c’era un altro grande: Leonardo Sinisgalli, ingegnere e poeta. Un eclettico. Un genio. «In un paese diviso tra il crocianesimo delle carriere intellettuali separate, e la tentazione generalista di élite circondate dal mito della leadership rinascimentale, lui – scrive Ferrante – è dopotutto il cross-over possibile, multidisciplinare in forza soltanto di sé stesso e dei suoi meriti di individuo co-inventore delle moderna comunicazione d’impresa».

Dopo di lui, arriverà Francesco (Flores) d’Arcais, chiamato alla guida della seconda fase, quella declinata dalla dicitura «Nuova Civiltà delle Macchine». Una fase trentennale, probabilmente meno attenta alla dimensione estetica rispetto all’esperienza precedente, ma lo stesso ancorata alla missione di promuovere il dialogo tra scienza e umanesimo. Il saggio di Ferrante è certamente il primo lavoro che fa ordine all’interno di un racconto segnato da più snodi fondamentali, arrivando fino agli anni recenti, con la riedizione del 2019 e il passaggio recentissimo del dicembre 2024, quando è stata introdotta una nuova testata.

Una storia di “restituzione”

Ma cosa ha rappresentato «Civiltà delle Macchine» in termini sociali ed editoriali? «Segna – spiega Ferrante – una tipica storia di restituzione capitalistica. Restituzione non infrequente nel mondo economico italiano, sebbene poco sistematizzata dagli studiosi. Ci fu una borghesia industriale che restituì alla società soprattutto in termini di progettazione sociale e poi di diffusione di cultura e arte».

Alcuni esempi, ma significati, sono quelli di Florio, Gualino, Olivetti, Pirelli e Feltrinelli. Nel Novecento italiano, l’incontro tra arte e cultura è stato, insomma, tutt’altro che casuale e segna una parte importante della vicenda nazionale. Una vicenda che comprende sì la testata fondata da Luraghi e Sinisgalli, ma che deve essere conosciuta in tandem con altre avventure. Come quella di Attilio Bertolucci, chiamato da Enrico Mattei a dirigere «Il Gatto Selvatico», la storica rivista dell’Eni.

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di Fernando Massimo Adonia - 20 Luglio 2025