
Storia, tradizione, futuro
Piantare alberi per i propri eredi: la prospettiva di questa generazione politica non è il 2026, ma il 2050
Basta pensare alle storie politiche come se fossero quelle di una famiglia per confutare monomaniache fantasie altrui di restaurazione storica e pose da duri e puri di "parenti" e amici attempati
Ragioniamo per metafore, o come fosse un romanzo fiume dell’Ottocento. Le storie di una famiglia si misurano non astrattamente in numeri di anni ma in generazioni, in concreti ricordi dei nonni, bisnonni, trisnonni, quadrisnonni… e basta, perché “quinque” e sei nonni non esiste. Una generazione vale circa venticinque anni, perciò sette sono quasi due secoli. Le sette generazioni si sono trasmesse notizie di nomi, mestieri, professioni, condizioni, il tutto sempre più vagamente, e contornato da aneddoti di certa o dubbia o nessuna autenticità. La settima generazione, trascorsi i due secoli, non ha quasi mai una sicura memoria della prima; e perché la memoria umana è ondivaga, e perché nel frattempo il mondo è radicalmente cambiato.
Dove voglio arrivare? A “noi” nel senso più generico, e non stiamo a divagare sulle etichette, e le eventuali appartenenze e dissidenze. Fu una storia lunga, con buona pace di Croce e Giolitti che non capirono il fenomeno e lo immaginario improvvisato e fugace. La “nostra” prima generazione, attorno al 1890, fu quella di patrioti del 1860 ormai divenuti nazionalisti; dei democratici pentiti come Crispi e Carducci; dei fortemente critici della partitocrazia come Sonnino; e dei lettori di Schopenhauer, Nietzsche, Sorel. La seconda, intorno al 1910, fu dei futuristi e degli interventisti effettivamente intervenuti, e poi delusi della vittoria mutilata. La terza, fu del tempo del potere, quindi dal 1922 alle crisi militare del 1943; e, a cavallo tra terza e quarta generazione, gli aderenti e superstiti alla Rsi. La quarta generazione fu quella del dopoguerra (i reduci e loro figli e immediati eredi), dunque fino agli anni 1990: la sua funzione fu, sostanzialmente, tramettere la memoria senza avere però possibilità di mettersi alla prova con atti di governo. La quinta fu quella del confuso e magmatico centrodestra, tra An e fusione con Berlusconi e dissoluzione, e infine la scomparsa anche della sigla. La sesta generazione (fatte tutte le legittime e doverose differenze) è oggi al governo dello Stato. La settima… vedremo.
Alla sesta, che in questo 2025 ha quarant’anni, ed elettori pure di venti o trenta, la prima e la seconda generazione stanno come a uno di oggi i gettoni telefonici al posto del cellulare, o a quando con stracci pulivamo le candele e la bobina delle 500 poi fatta partire a spinta: e chi ha conservato un gettone per ricordo, non troverebbe mai un telefono apposito. Così un anziano di oggi, memore del passato, avrebbe serie, diciamo insormontabili difficoltà a spiegare, che so, la bonifica dell’Agro Pontino a chi una palude l’ha vista solo al cinema… e non parliamo della conquista dell’Etiopia a giovani usciti da scuole scarse di geografia e di storia… e figuratevi se hanno raccontato loro che il re di Gran Bretagna era imperatore delle Indie; e per far sapere che divenne imperatore anche il re d’Italia, bisognerebbe spiegare che c’era il Regno d’Italia, e ciò parlando a fanciulli abituati a farsi raccontare, allusivamente tra le righe, ogni 2 giugno, che l’attuale Repubblica risale a prima dei tempi degli Ausoni invece che solo dal 1946; e poi far sapere che la quarta generazione dei “nostri” votò sì repubblicano, bensì per motivazioni totalmente diverse, anzi esplicitamente opposte agli altri elettori. E vallo a spiegare, a gente che non sa quasi nulla del 1943-5, però canta Bella ciao! Potrei continuare anche con i campionati mondiali di calcio di Pozzo, eccetera: ma a che servirebbe? Alla storiografia, forse, e anche in questo caso non più che stabilire, finalmente, se nel 216 a.C. la battaglia di Canne si svolse da una parte o dall’altra dell’Ofanto.
Ebbene, quelli della prima e seconda e terza generazione sono tutti corporalmente defunti da decenni; idem almeno metà di quelli della quarta… beh, due terzi; e anche la quinta ha in larga percentuale i capelli bianchi e qualche crisi di memoria. Sono effetti del tempo che passa, “inreparabile”, scrive Virgilio: che non torna indietro. E anche i sempre più rari superstiti della quarta, e ormai attempati, viviamo nel 2025. Altro discorso è la Tradizione, e con essa pochi saldissimi principi: primato dello spirito sulla materia e finalità non economica dell’economia. Bene, ma nel 2025 e per il 2025; e la Tradizione non è conservazione; tanto meno è i cari ricordi di un Sessantotto adolescenziale.
Esempio economico: la terza generazione affermava e praticava, lodevolmente, il concetto di azienda, quindi la collaborazione tra lavoro e capitale; ai tempi della sesta quasi settima, il capitale non è di un “padrone” con indirizzo, è di fondi anonimi con sede chissà dove, e i cui proprietari sono spesso, magari senza saperlo e grazie qualche accumulo alle Poste, gli stessi operai; e i lavoratori stanno spessissimo in “smart”, cioè operano a casa propria al computer, come del resto sto facendo io con questo modestissimo articolo.
Esempio… esplosivo: i confini, fino a metà XX secolo, si misuravano pensando a cannoni con tiro di 30 km (sta così scritto, alla lettera, nel trattato di pace del 1947), quando oggi anche le bande di poveri hanno missili senza limiti di spazi. E, per ovvie ragioni tecnologiche, due o tre fregate dell’attuale flotta italiana basterebbero a sconfiggere le 750 navi da guerra littorie del 1940… e anche quelle inglesi e americane in pari data.
Esempio delle distanze e della misurazione del mondo: se io telefono a qualcuno nella camera accanto, in realtà sto parlando con un satellite.
Ecco dunque un bel compito per la generazione che oggi appena si affaccia, ed è la settima, e che deve creare una visione della vita e del mondo la quale, fatta salva la Tradizione, sia valida per il 2025 e 2026… ormai avviato al 2050. I fedelissimi potranno dire, ancora con Virgilio, “carpent tua poma nepotes”: avremo piantato alberi i cui frutti su questa Terra noi non vedremo, e li mangerà qualche erede, speriamo degno, nel senso di capace di capire e gestire.
A che serve aver giocato con questa metafora familiare? A confutare monomaniache fantasie altrui di restaurazione storica; e a chiarire le idee a certi amici miei di uguale mia età, e rimasti, beati loro, duri e puri. Però, a pensarci, che bel film, che bella serie tv che verrebbe, raccontando tutte le sei generazioni… magari con gli occhi della settima.