
Delitti italiani/14
Michele Sindona, il banchiere di Patti e il caffè avvelenato come Pisciotta: l’uomo che legò la mafia allo Ior
Protagonista di operazioni spregiudicate nel dopoguerra, condannato all'ergastolo come mandante dell'omicidio Ambrosoli, la sua morte sarà derubricata come suicidio
Michele Sindona era un uomo di intelligenza particolare, dicevano gli amici. Figlio di una Sicilia bella e tormentata, prese il caffè sbagliato come Gaspare Pisciotta, il 22 marzo del 1986 a Voghera. E per quel caffè al cianuro, si disse nel tempo, evitò di aprire bocca sui più grandi scandali degli anni settanta e ottanta. Anche se per la giustizia italiana non lo uccise nessuno.
Un altro banchiere di Dio
Nato a Patti in provincia di Messina il 1920, Sindona era figlio di un fioraio. Per mantenersi agli studi dovette lavorare ma si laureò brillantemente in legge a soli 22 anni. Si legò immediatamente agli americani dopo lo sbarco facendo contrabbando e guadagnando i primi soldi. Per poi trasferirsi a Milano.
Negli anni cinquanta e sessanta diventa amico di Lucky Luciano, il boss che fu il mediatore dello sbarco in Sicilia, ma anche dell’arcivescovo Montini che il 1963 diventerà Paolo VI. Fonda la sua prima banca, acquisisce la Banca finanziaria privata ed inizia a lavorare con lo Ior, l’istituto di Opere Religiose del Vaticano. La sua scalata non conosce limiti.
Il salvatore della lira
Spregiudicato e coraggioso accumula fortune al punto che Giulio Andreotti nel 1974 lo definirà, “il salvatore della lira”. Il disegno di un polo finanziario cattolico, parallelo allo Ior, conosce l’adesione di Guido Calvi. Ma non quella di Enrico Cuccia che inizia a fargli la guerra.
Nonostante l’appoggio americano proprio il 1974, un crollo del mercato azionario portò al cosiddetto “crack Sindona” con il fallimento della Banca Privata Italiana Anche i profitti della Franklin Bank, di sua proprietà, crollarono del 98% rispetto all’anno precedente e Sindona accusò un calo di 40 milioni di dollari, iniziando a perdere la maggior parte delle banche acquisite nei 17 anni precedenti. L’8 ottobre 1974 la Franklin National Bank venne dichiarata insolvente per frode e cattiva gestione, a causa delle speculazioni in valuta straniera e a una pessima politica di gestione dei prestiti. Di chi erano quei soldi?
I soldi di Cosa nostra
Nel 1974, nel tentativo di salvare le banche dal crack, il Banco di Roma, su interessamento di Andreotti e Fanfani accordò un prestito di 100 milioni di dollari a Sindona, che contraccambiò versando due miliardi di lire alla Democrazia Cristiana in occasione della campagna elettorale per il referendum sul divorzio. Il suo patrimonio in quegli anni viene valutato in 500 milioni di dollari. Ma di chi sono quei soldi? Per gli inquirenti, negli anni successivi, sono i “risparmi” di Cosa nostra. Un mega investimento che la “Cupola” gli avrebbe concesso in cambio di una garanzia di redditività notevole.
Il finto sequestro
Nell’agosto 1979, mentre era indagato dalle autorità statunitensi, Sindona scomparve improvvisamente da New York e, servendosi di un passaporto falso, raggiunse Vienna accompagnato da Anthony Caruso, un piccolo funzionario della Barclays Bank, e da Joseph Macaluso, un costruttore italoamericano (entrambi “soldati” della famiglia Gambino) simulando un sequestro; Sindona, dopo una sosta ad Atene, arrivò a Brindisi e da lì in automobile a Caltanissetta, venendo raggiunto in momenti diversi da Giacomo Vitale e da altri massoni, tra cui il suo medico di fiducia Joseph Miceli Crimi (affiliato alla loggia P2), che lo accompagnarono nel resto del viaggio. Il 17 agosto arrivò a Palermo e successivamente incontrò John Gambino, giunto da New York per seguire personalmente la vicenda: Sindona deve dare risposte alla mafia e ritrovare quei soldi che aveva garantito come investimento sicuro. Ma il problema si chiama Giorgio Ambrosoli.
Il delitto Ambrosoli
Giorgio Ambrosoli, l’eroe borghese, viene nominato commissario della Banca di Sindona. Vuole fare pulizia ed è incorruttibile. Al punto che l’11 luglio del 1979 alcuni sicari lo uccidono. Gli inquirenti scopriranno che a decidere l’omicidio fu proprio Michele Sindona. Piduista, millantatore ma anche ricattatore, Sindona diceva di essere in possesso della lista dei 500 insospettabili italiani ( molti politici) che avevano conti all’estero. Condannato per 65 reati negli Stati Uniti viene estradato in Italia.
La morte: suicidio?
Condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio Ambrosoli, Michele Sindona muore in carcere il 22 marzo del 1986 dopo avere bevuto un caffè. All’interno c’era cianuro e per gli inquirenti non c’è dubbio: è stato Sindona stesso ad avvelenarsi dopo il carcere a vita. Il cianuro, dall’odore forte, non poteva essere assunto in maniera “indolore”, sosterranno i magistrati. Ma i dubbi sono tanti. Il banchiere siciliano esce dalla cella gridando aiuto ed esclamando, “Mi hanno avvelenato!”. Starà due giorni in coma. Poco prima, a Voghera, aveva ricevuto la visita di Carlo Rocchi, agente della Cia, che lo aveva rassicurato sulla protezione americana.
I segreti di Don Michele
Chi aveva interesse ad uccidere Sindona? Un elenco infinito. Cosa nostra, innanzitutto, che perse un investimento considerevole per le concatenazioni bancarie. Ma anche il potere politico. La lista dei 500 uomini potenti che avevano i conti all’estero non era una fandonia. Il banchiere di Patti aveva stipulato accordi disparati, tra mafia, P2, servizi deviati. Ma anche la sua morte rimane un mistero. In fondo, era solo un caffè.