
La testimonianza
Mascheropoli, quelle aziende italiane sedotte e abbandonate dal commissario Arcuri. Parla l’imprenditore
Antonio Lombardi, proprietario di un’azienda che attuò una profonda riconversione per produrre mascherine chirurgiche, ci racconta la spiacevole esperienza avuta con la struttura commissariale. "Grazie alla commissione d'inchiesta sul Covid: questo era un tema sconosciuto al mondo politico. Per me è stata una débacle completa”
“Siamo stati abbandonati, lasciati soli dallo Stato”. Antonio Lombardi, proprietario di un’azienda che nelle primissime fasi della pandemia attuò una profonda riconversione per produrre mascherine chirurgiche, racconta al Secolo d’Italia la spiacevole esperienza avuta con la struttura commissariale di Domenico Arcuri. “Ho invece riscontrato un notevole interesse da parte della commissione d’inchiesta sul Covid che mi ha audito qualche mese fa perché questo era un tema del tutto sconosciuto al mondo politico”, aggiunge Lombardi.
Come avvenne la riconversione della sua azienda?
“Siamo nel marzo del 2020 e la pandemia è appena scoppiata. Lo Stato si adopera, quindi, per creare delle fonti di approvvigionamento diverse dalle solite importazioni dalla Cina e viene emanato il decreto 18 del 2020 lo Stato con cui il dottor Arcuri, ad di Invitalia, diventa commissario straordinario della pandemia. Vengono stanziati 50 milioni di euro che Arcuri usa per fare un bando rivolto alle aziende che volevano convertire la loro attività alla produzione di mascherine chirurgiche o qualsiasi altro materiale utile a combattere il Covid come i ventilatori polmonari. Noi decidiamo di puntare sulle mascherine, ma, nonostante un investimento di 312mila euro, raggiungo un fatturato di 400mila euro. Per me è stata una débacle completa”.
Ha capito quali sono i motivi di questo flop?
“All’epoca Arcuri dichiarò che avrebbe acquistato da queste imprese coraggiose e volenterose quanto fossero in grado di produrre. Poi, però, lo Stato italiano ha continuato ad acquistare prodotti anche non certificati da chiunque, da qualsiasi azienda del mondo fuorché dalle aziende che aveva finanziato. Con la giustificazione dell’emergenza, intanto, trattavano con grandi aziende condizioni di fornitura completamente diverse dalle nostre. Lo Stato italiano ha acquistato i macchinari, la materia prima e ha affidato tutto a queste aziende per la produzione riconoscendo loro un corrispettivo. Noi, quindi, abbiamo rischiato e siamo rimasti fermi, mentre altri avevano la possibilità di negoziare condizioni più vantaggiose delle nostre. Gli altri hanno fabbricato prodotti forse certificati, ma che non hanno superato i test di validità. Questo ci ha posto in una condizione di difficoltà perché non siamo stati in grado di produrre abbastanza per coprire i costi dell’investimento perché non hanno acquistato i Dpi da noi”.
Qual è il suo rammarico più grande?
“Una volta realizzato l’investimento, abbiamo prodotto mascherine regolarmente certificate e abbiamo messo tutta la produzione a disposizione del commissario straordinario; affinché ne facesse l’uso che riteneva migliore, ma le macchine sono state inattive per l’80% del tempo. Producevamo in maniera molto rallentata rispetto alle nostre possibilità. Non avrei mai fatto un investimento di questo tipo se non avessi valutato la possibilità che ci fosse un mercato. La verità, secondo me, è che siamo stati vittime e strumento a disposizione di qualcuno per finalità che mi sfuggono. Hanno pensato che noi potessimo servire il mercato di vicinato (la farmacia di paese, l’ospedale di provincia ecc…), ma non hanno pensato alle conseguenze. Ora, per fortuna, siamo tornati tutti alle nostre vecchie produzioni”.