
Sulle nostre colonne
Le guerre di Almerigo e quel Secolo d’Italia che con lui “incontrava” i popoli in lotta
Quando si parla di Almerigo Grilz non si può non considerare un vanto, e una grande occasione, quella di aver ospitato nelle pagine del Secolo d’Italia i reportage dell’inviato “spericolato” di guerra nelle zone più calde del mondo
Quando si parla di Almerigo Grilz non si può non considerare un vanto, e una grande occasione, quella di aver ospitato nelle pagine del Secolo d’Italia i reportage dell’inviato “spericolato” di guerra nelle zone più calde del mondo. Triestino, segretario carismatico del Fronte della Gioventù e poi appassionato viaggiatore, Grilz è stato l’esempio di vita avventurosa per eccellenza, portata fino alle estreme conseguenze. Dopo aver combattuto politicamente sulle “barricate” della sua amata Trieste, e aver guidato gli studenti, gli universitari e la sua comunità, Almerigo agli inizi degli anni Ottanta sente la chiamata del “mare grande”. Assieme agli amici di sempre Fausto Biloslavo e Gian Micalessin (adesso inviati di punta nei maggiori quotidiani e periodici) fonderà l’agenzia Albatross press agency e in quegli anni si dedicherà a raccontare in prima linea le guerre dimenticate, dall’Afghanistan all’Africa, fino all’Estremo Oriente.
Quello di Almerigo, però, non sarà mai un distacco dal mondo di provenienza: non a caso – appena rientrava dalle missioni – non mancava di “propagandare” la passione del giornalismo tra i giovani missini e i suoi tanti amici. Questo durò per anni – e con un successo che, nell’indifferenza di molti media italiani, lo fece apprezzare in mezzo mondo (dalla Cbs a France 3 fino all’Nbs) – finché nel 1987, in Mozambico, una pallottola lo colpì a morte durante uno scontro a fuoco tra i ribelli del Renamo e i governativi del Frelimo raccontato, come sempre in prima linea.
Per il Secolo d’Italia firmerà – tra i tanti servizi esclusivi – un reportage sulla guerra in Libano dell’82 in una Beirut martoriata. E poi nel 1983 la resistenza antisovietica in Afghanistan, dove entrò clandestinamente e dove marcerà per giorni assieme ai mujahideen: «Anche stavolta è passata – si legge a proposito di un attacco degli elicotteri russi –. I tre colpi di segnalazione che tutto è a posto anche dall’altra parte della vallata. I risultati di tutto questo sconquassamento sono praticamente nulli. L’obiettivo principale dell’attacco pare essere un gruppo di case completamente vuote, e non quelle che nascondono le basi dei mujahideen. E anche quel bersaglio errato è stato mancato: le bombe sono cadute tutte attorno aprendo larghe buche nel terreno, abbattendo alberi. Il giorno dopo stessa musica, con le stesse trascurabili conseguenze per i combattenti della resistenza. È un esempio significativo di come la superpotenza sovietica, con tutta la sua tecnologia, i suoi strumenti bellici sofisticatissimi, le tonnellate di tritolo che rovescia quotidianamente sull’Afghanistan, non possa vincere contro la fede, il coraggio e la determinazione di un popolo in lotta».
Grilz – del quale queste parole aiutano a comprendere come intendesse la sua missione di narratore dei conflitti – sarà il primo reporter a morire sul campo dal Dopoguerra. Eppure – per quel processo di rimozione così in voga verso coloro che hanno percorso sentieri non conformi – per anni la sua figura è rimasta ai margini, misconosciuta al grande pubblico. Ci sono state polemiche, incresciose, addirittura per ricordarlo come reporter caduto in guerra: tant’è che il suo nome – per tanti, troppi, anni – non ha trovato spazio nella targa dei giornalisti caduti, all’ingresso delle sede triestina dell’Albo. Un torto all’uomo e alla dignità della professione.