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Il serio sfottò di Giuliano Ferrara a Bajani, vincitore dello Strega: “Com’è banale accusare la famiglia per la propria infelicità”

Cultura e politica

Il serio sfottò di Giuliano Ferrara a Bajani, vincitore dello Strega: “Com’è banale accusare la famiglia per la propria infelicità”

Cultura - di Luca Maurelli - 5 Luglio 2025 alle 14:39

Come stroncare senza maramaldeggiare. Facile, se ti chiami Giuliano Ferrara e delle beghe di bassa politica ti frega meno della speziatura del tabacco Vuelta Abajo del suo sigaro. “Bajani è un torinese dal profilo pensoso e piacione, ha venduto la sua merce letteraria con una strana idea dell’originalità dell’opera e della forma di romanzo, con tutta la sua complessità, come lui dice. Il tema è il rifiuto della famiglia, la fuga dalla famiglia, l’abbandono della famiglia e il riscatto del figlio fuggitivo nella felicità dell’esito. Via dalla famiglia, sono stato felice…”. L’incipit dell’articolo del fondatore del “Foglio” di sicuro non fa rimpiangere quello dell’Anniversario, il romanzo di Andrea Bajani, vincitore di un’edizione del “premio Strega” al veleno, causa duello a distanza col ministro Giuli. Ma soprattutto, riesce nell’impresa poco italiana di sottrarsi alla contrapposizione politica destra-sinistra, che anche nella cultura ha stufato perfino chi la fa. Ferrara la mette sul culturale, come “Strega” imporrebbe, anzi, sull’antropologico, formidabile strumento di lettura della connessione invisibile tra autori e testi.

Giuliano Ferrara e la banalità dell’infelicità di Bajani

Nel caso di Bajani – l’Alberto Tomba dell’intelligentia di sinistra, capace di slalomeggiare tra le insidie della politica in tutte le interviste rilasciate dopo la vittoria, nel segno del “nulla vidi, niente saccio” – Ferrara si esercità sulla banalità del “male”, familiare, in questo caso. Per sottolineare come non ci sia argomento più facile da declinare – per avere successo alla sensibilità del lettore – di quello dell’infelicità del nucleo originario, da cui fuggire, emanciparsi, contro cui affermare la “banale” negatività del patriarcato, usando la famiglia come un muro scalcinato per un giovane giocatore di tennis che ribatte la più scontata delle palline.

Vale la pena di riprenderlo tutto, o quasi, l’articolo di Ferrara: “Rielaborando il celebre incipit di Anna Karenina, le famiglie sono tutte infelici e tutte infelici nello stesso modo, colpa del patriarcato e dell’incapacità famigliare di assicurare all’individuo un suo diritto a sentirsi al sicuro, al safe space (Bajani insegna in una università americana, è uomo di campus, insiste molto su questo misterioso spazio di sicurezza che è il mantra più incomprensibile del wokismo). Chi legge libri, chi li scrive, chi ne sente parlare come di idoli, chi pratica l’impollinazione culturale senza riserva né sottigliezza si pensa come un battaglione di resistenti al lavoro per un futuro migliore, ma in certi casi può risultare una falange di retroguardia che gioca solo in difesa e ha lo strano gusto eroico delle battaglie già vinte e stravinte…”, fa notare il giornalista. Che va al dunque quando affonda il colpo:  “Bisognerebbe diffidare delle semplificazioni travestite da complessificazioni. C’è stata poi la grande rottura della idea di famiglia uterina come viatico della schizofrenia e della follia, con Laing e Cooper a distruggere il nesso famigliare oppressivo della libertà individuale e generatore di terrore mentale, venne il famoso Sessantotto con la sua famiglia dispersa, ci sono stati la curva demografica in calando, la contraccezione, il divorzio, l’aborto, il movimento identitario Lgbtqi e il Gay Pride, il transgenderismo, sicché scoprire oggi o rilanciare la fuga dalla famiglia ha un effetto da specchietto retrovisore e un sapore di tisana detox di cui Bajani non sembra del tutto consapevole”.

Il modello Albinati a cui guardare

La citazione di un grande libro, di un autore non certo di destra, Edoardo Albinati, “La scuola cattolica”, serve per evidenziare il sottile solco tra facile retorica e analisi sociologica non autoreferenziale, come quella di Bajati. “Tutto era crisi della famiglia ma attraverso il racconto di una generazione, di un quartiere, di una modalità di istruzione e costume laico e di chiesa, con la spettacolare irruzione drammaturgica del patriarcato stupratore a oltre quattrocento pagine di un romanzo che ne durava più di mille e trecento, il massacro del Circeo. Che non era, come la sopravvissuta all’eccidio Donatella Colasanti replicò a un suo intervistatore e come emerge dal racconto di Albinati, un semplice caso di stupro e femminicidio da giudicare con categorie ideologiche ingarbugliate, ma molto di più, una violenza intrisa di ambiguità morale e protetta dalla remissività della giustizia di stato e dall’influente presenza delle famiglie. Un po’ facile, adolescenziale, fuggire dalla famiglia e chiamare l’applauso per una soluzione che nasconde la crudeltà del problema, irriducibile a qualunque spazio di sicurezza. Insomma, uno scrive un romanzo, atto lodevole in sé, sarebbe meglio che non lo circondasse della sua povera e confusa esperienza critica, gettandolo nel pasticcio del sociale e del politico al ritmo dei propri ritardi”, chiude Ferrara. Al quale, forse, a differenza di Giuli, qualcuno aveva spedito il libro vincitore, forse senza immaginare che lo avrebbe letto vista l’allocazione culturale nello scacchiere politico avverso.

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di Luca Maurelli - 5 Luglio 2025