
Il Premio Strega che vorrei… avrebbe il coraggio di premiare “Uccidere un fascista” di Culicchia. Invece c’è toccato un altro libro contro la famiglia
Benvenuti alla festa di fine anno dell'editoria sinistrorso-snob nostrana e dove i finalisti della cinquina sono sempre ben allineati e coperti e sempre portatori degli stessi ideali "nuovi" degli ultimi ottant'anni
Guarda il caso, il premio Strega 2025, l’ultimo nel paradisiaco Ninfeo prima della annunciata deportazione nel più realistico paradiso tuscolano di Cinecittà, lo vince Andrea Bajani, con un romanzo che combatte il nemico numero uno della società, ovvero il patriarcato: una dimenticabile autofiction irritante e compiaciuta, che non riesce a diventare letteratura in neanche una pagina.
Un libro da non leggere senza sentirsi in colpa, dopo aver provato l’ebbrezza di ignorare la Pietrantonio dell’anno scorso, dedita anche lei alla vivisezione di un altro mostro della società moderna, la terribile “famiglia”, o lo Scurati, di qualche tempo fa, figlio del lustro, quello culturale letterario, più intristito e ritrito da parecchio a questa parte. Per non parlare del Lagioia incoronato la noia pura, all’epoca affrontato con piglio scolastico investigativo, ma abbandonato a un quarto, dopo il rituale e liberatorio lancio contro il muro destinato alle ciofeche illeggibili (Raimo, perché ti senti sempre chiamato in causa? Stai al posto tuo, che neanche ti ci sei mai avvicinato a un premio, pure i tuoi amici hanno avuto vergogna!).
Benvenuti al premio Strega, festa di fine anno dell’editoria sinistrorso snob nostrana, dove, come in ogni festicciola scolastica che si rispetti, ci si abboffa, si sbevazza, si flexano le ultime fidanzate\i e, incidentalmente, si sceglie anche il libro più bello tra quelli bellissimi che gli amici degli amici, qui talmente scoperti da chiamarsi “Amici della Domenica”, si passano tra loro, rigorosamente turnando tra case editrici maior e, una volta ogni tre o quattro anni, minor, anche per dare l’impressione di essere inclusivi e paritari, tanto si sa chi paga.
Ha fatto perciò benissimo il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, a far passare un concetto che ci piace rielaborare così: “No, ragazzi non scherziamo, questa volta vado a mangiare polpette di Bavaria con il mio collega germanico, piuttosto che farmi sputtanare da gente in spezzato di lino e sandali, che ha pure la pretesa di essere elegante”. Il nostro ministro, che i sinistri letterati definiscono con disprezzo “zufolante”, questa volta lo ha loro suonato, lo zufolo, perché lo sa bene, essendo stato anche lui un “Amico della Domenica”, che da quelle parti se non sei allineato e coperto al pensiero unicamente corretto, vieni invitato solo per fini folcloristici, per dare un refolo di varietà intellettuale: guarda che bell’animaletto esotico lì nell’angolo, comparsa necessaria alla solennità dell’evento, rifocillato e vezzeggiato prima di finire incaprettato e arrostito, come gli ignari ospiti del Midsommar.
Quasi epico è stato, infatti, l’infiorettamento del predecessore, uomo di cultura altra, non avvezzo ai ministricidi in diretta tv, che solo i più giusti e democratici riescono a celebrare con la stessa leggerezza di una battuta volgarotta sull’ultima delle stagiste poppute o degli stagisti in fiore, a seconda dei gusti. Santodio, ci siamo imbucati tutti allo Strega, almeno cinque o sei volte mai direttamente invitati, ma per gentile intercessione di case editrici, amichetti, fidanzate o aspiranti tali. Chi non ha peccato scagli il primo tomo.
Tuttavia il cerchio sacro è difficilmente penetrabile, frigido e chiuso alle novità, se non sei amico non potrai mai diventare “Amico della Domenica”. Meglio, di quella maggioranza tra loro – sarebbero quattrocento secondo la Fondazione Bellonci, equamente distribuiti in cordate editoriali – che amministra la regalia-premio ispirata al liquore delle janare beneventane, che decide, attraverso varie selezioni, la cinquina di finalisti, sempre ben allineati e coperti, sempre portatori degli stessi ideali “nuovi” degli ultimi ottant’anni.
Vero che, talvolta, capitino libri che hanno una loro forza così grande, magari incentivata anche dall’essere di qualche maggiore casa editrice, che bucano la cortina di ferro e, inaspettatamente, vincono, anche stracciando all’ultimo la melassa super favorita. Accadde ad Antonio Pennacchi con il suo Canale Mussolini, deflorante il pudendo tenero Acciaio della sempre solenne e compunta Avallone, quella sera trasecolata per l’oltraggio, mentre il mai troppo compianto Antonio agropontino si scolava a garganella il liquore giallo, come dopo di lui è diventata consuetudine degli scrittori vincenti più maschi.
Ci sono libri così forti che vincono tutto, anche le conventicole allargate, che a leggerli sono talmente superiori da risultare inarrestabili, come lo streghesco Spatriati di Mario Desiati, che sbagli chi non legge tutt’intero nella sua opera, poco importa che ogni tanto si innamori senza stare troppo attento di chi, o Due vite di quell’Emanuele Trevi, eterno enfant prodige della letteratura italiana, che qualcuno dovrebbe costringere a scrivere quel libro immortale che tutti stiamo da lui aspettando, ex mogli a parte.
Alcuni meritano di vincere da anni, ma non vengono neanche selezionati nelle prime ampie scelte, come il fortissimo e tenebroso Aurelio Picca, che dall’alto della sua Velletri interiore guarda, a volte torvo e spesso ammirato e conquistato, la Città Eterna troppo mutevole, troppo superficiale per i suoi abissi e le sue vette. Mentre ci sarebbe un libro “nostro” che meriterebbe lo Strega, ma come si fa a darlo ad uno che racconta straordinariamente bene sia la commedia esistenziale che la storia triste d’Italia, quella sepolta e politicamente scorretta da una parte e dall’altra, che non si deve ricordare. Ecco, lo Strega quest’anno l’avrebbe dovuto vincere chi ha avuto il coraggio e la capacità di scrivere, senza essere mai scontato e banale, di quell’intimo substrato di commedia e tragedia che siamo: lo Strega che vorremmo è Giuseppe Culicchia, uscito kamikaze quest’anno con Uccidere un fascista – Sergio Ramelli, una vita spezzata dall’odio.
Pochi ne hanno parlato, nei circoletti bene dell’editoria italiana, che tuttavia hanno osannato i precedenti, dedicati alla storia familiare del cugino dell’autore, il giovanissimo brigatista Walter Alasia. Per molti la nostra sarebbe una scelta ideologica, non lo sarebbe di meno di quella che ha assegnato il premio 2025 in funzione “antipa’”, tuttavia molto più coraggiosa e spiazzante, come solo un premio smaccatamente streghesco dovrebbe essere, come solo la vera letteratura può e deve.