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Giudici e giustizia: la filosofia greca spiega perché la riforma è necessaria

Il dibattito

Giudici e giustizia, dov’è l’inghippo? Riscoprire la filosofia greca per capirlo (e per capire perché la riforma è necessaria)

Per il pensiero ellenico ciò che è limitato è perfetto. In Italia la magistratura ha iniziato a perdere credibilità quando ha iniziato a eccedere rispetto al proprio perimetro. Ristabilire dei limiti non è un atto ostile, è un atto a tutela

Politica - di Ulderico Nisticò - 27 Luglio 2025 alle 07:00

A costo di passare per pesante erudito, nemmeno stavolta resisto alla tentazione di qualche citazione classica e storica. Racconta Erodoto che il popolo dei Medi (Madas, attuale Iran) versava nel disordine, evidentemente per difetto di governo. Poiché l’anarchia piace solo ai poeti bohémien e ai matti, si rivolsero a un uomo saggio, Deioce, che rendeva loro giustizia. Finché una mattina non smise, lamentando che, per tale ufficio, stava trascurando i suoi affari; e subito i Medi gli assegnarono uno stipendio. E ve bene, finché un’altra mattina non smise dicendo che si stava attirando pericoli e nemici, e i Medi gli assegnarono una guardia del corpo. E va bene, finché… con la guardia del corpo non fece un bel colpo di Stato, e si proclamò re. Ogni riferimento… è puramente voluto, ma aspettiamo.

Anche le tribù ebraiche della Bibbia, non avendo un governo, si rivolsero a persone forti e sagge, che chiamiamo, appunto, giudici. Saltarono diversi passaggi i Sardi del Medioevo, tra i quali gli arconti, quando Costantinopoli si scordò di nominarli, si nominarono da soli, e la parola “arkhon” venne resa in latino come “iudex”, e giudice, in Sardegna, significò re. Ricordiamo, per doveroso omaggio al gentil sesso, la giudicessa Eleonora d’Arborea (1383-1403).

Negli Stati moderni, i giudici, o, più in generale, magistrati, sono un ordine che, stando a Montesquieu, è indipendente e soggetto solo alla legge; se non che viene assunto, e in qualche modo controllato dallo Stato, quindi di fatto da un ministero. E qui ci avviamo a parlare dell’inghippo.

Torniamo però indietro. In Roma della Repubblica giudici e avvocati erano dei cittadini togati con solida cultura giuridica. Nell’Impero, le leggi le proclamava l’imperatore, però di solito il Cesare pro tempore era un buon militare e non un giurista; quindi si serviva di iuris-periti, profondi conoscitori del diritto… e delle sue conseguenze. E saldamente convinti che, alla fine della vendemmia, c’è una legge al di sopra di ogni legge, ed è “salus Reipublicae suprema lex”. Non applicavano teorie, lasciandole ai venerati e poco attendibili Greci; bensì regolavano l’esistente. Esempio, il matrimonio: dall’antichissima forma patrizia confarreata, tanto complessa da chiamarsi al plurale “nuptiae”, e difficilissima da sciogliere, si passa a una convivenza di fatto, però legalizzata, donde i contorplicati alberi genealogici di molti illustri Quiriti, a furia di divorziare e risposarsi… e non solo. Riassumendo, i giurisperiti facevano le leggi, però, affinché fossero sacre, le promulgava l’imperatore: sapienza romana, e nessun inghippo!

L’inghippo, nelle recenti cronache italiane, inizia a nascere attorno agli anni 1970, con i governicchi balneari e roba simile; e con la progressiva decadenza culturale della classe politica, quindi del potere legislativo. Poiché i vuoti amano riempirsi, si allargò il potere dei giudici, e in modo esponenziale. Ciò accadde per due ragioni: una ragione tecnica, il pullulare di leggi, più le leggi europee, più vaghe convenzioni internazionali, più le estemporanee interpretazioni; l’altra, ideologica: il mito che chiameremmo di Deioce, e di cui vennero ammantate le figure dei magistrati, come fossero esseri superiori e diversi dai comuni mortali. Alzi la mano chi non si lasciò affascinare dalla stagione di “Mani pulite”, prima che ci accorgessimo non certo dell’innocenza degli indiziati, ma sicuramente dell’incapacità dei magistrati di dimostrare che erano colpevoli: dico dimostrare con prove, non con frasi roboanti sui calzini! E poi qualcuno finì in politica, anche in questo caso con pessimi risultati.

Pullulavano, ripeto, le leggi e roba simile. Quando la nota Carola, dopo aver dato il suo contributo all’inquinamento del Mediterraneo per oltre due settimane, speronò la Finanza, venne scagionata in base una serie di remote e ai più sconosciute convenzioni internazionali, serenamente firmate da qualche governo in altre epoche, altri contesti e con altre finalità; mentre, esempio contrario, l’Italia evitò intelligentemente il Patto di Marrakech, ufficialmente noto come Global Compact for Migration. Come fece? Semplicemente non partecipando, o bastava anche una foto ricordo, e poi qualche giudice fantasioso la scambiava per firma… Ah, se volete ridere, il presidente del Consiglio era… Conte Uno!!!

Ora pare che ce la stiamo prendendo con i giudici e con il concetto di magistratura. Al contrario, richiamiamo la filosofia ellenica, la quale insegna che solo ciò che è limitato è perfetto. Se è vero, ed è vero, che i giudici, dagli anni della fu Prima Repubblica, sono usciti fuori dei limiti, è molto semplice: devono tornare nei limiti. Tornando nei limiti saranno non pretendo perfetti, bensì credibili.

E si badi che i limiti sono stati superati non solo soggettivamente dalle persone di alcuni giudici, ma anche oggettivamente da quelle raffiche di leggi e sentenze e firme allegre di cui sopra. Sicché ogni cittadino può incorrere in una qualsiasi violazione di qualsiasi legge dimenticata; o il colpevole essere assolto.

Bisogna anche riformare le leggi togliendo “il troppo e il vano”, come Giustiniano fece. Cancellarne tantissime, e riscrivere le superstiti in modo lapidario e chiaro per tutti.

Bisogna riformare la magistratura; e qui non ho da aggiungere a quanto già si fa in parlamento e faremo con referendum. Ribadisco che va eliminata ogni politicizzazione: è assurdo che un giudice appartenga a una corrente e debba giudicare uno di corrente contraria.

Bisogna ridefinire i poteri e le funzioni. Esempio, la Cassazione deve tornare a essere solo la Cassazione, e non un terzo grado di giudizio.

Bisogna anche – e qui mi si permetta di dire che non ci sta pensando nessuno – riformare l’avvocatura. Ci sono troppi avvocati, e di conseguenza troppe cause. E, peggio, ci sono troppi cassazionisti, se ogni azzeccagarbugli di paese può patrocinare in Cassazione… e quindi, o per amore o per l’onorario, patrocina con ogni scusa. Senza scordare che il civile versa in condizioni anche più aleatorie del penale.

Bisogna dunque restituire alla magistratura la sua dignità. Dico la dignità quella genuina, non quella mitologica degli anni 1990. I giudici sono dei professionisti, non degli dei dell’Olimpo calati “in terra a miracol mostrare”.

Non devono “combattere” nulla, i magistrati, devono indagare e sentenziare sui singoli casi. Devono applicare le leggi, non farsele per conto loro. Devono tornare a essere, semplicemente, magistrati. E devono essere responsabili di quello che fanno, sia moralmente sia penalmente sia civilmente.

Riportare qualcuno nei suoi limiti non è un atto di ostilità. Alla fine, nessuno ha mai preteso che un professore di letteratura sia poeta e uno di matematica inventi teoremi: basta e avanza sia un buon professore. E la scuola non deve “combattere”, deve insegnare. Lo stesso per i magistrati, i quali vanno liberati anche dall’immagine di leggenda metropolitana che li ammanta… e che facilmente da ammirazione si rovescia, come succede, in disistima.

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