
L'intervista
Gaia Tortora: “Basta vite intrappolate dai teoremi: ecco perché la separazione delle carriere è un passo decisivo verso la giustizia giusta”
La conduttrice e volto di La7, figlia del grande Enzo Tortora, affida al Secolo d'Italia le sue riflessioni sulla riforma della giustizia: «Capisco la resistenza al cambiamento di una parte della magistratura: però questa continua resistenza su tutto rischia di alimentare quella sfiducia che oggi abbiamo tra i cittadini, perché la resistenza della magistratura è su tutto»
Con il sì ottenuto in Senato questa settimana, si completa la prima fase dell’iter di approvazione di una riforma della giustizia attesa da decenni che attua, finalmente, la separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante. Adesso, trattandosi di legge di revisione costituzionale, si dovrà attendere il secondo passaggio in entrambi i rami del Parlamento e, visti i numeri, il referendum, verosimilmente nel 2026. È una riforma di cui si discute da oltre 30 anni, naturale conseguenza del passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio, avvenuto nel 1988, che sino ad ora nessuno era riuscito a concretizzare. Nonostante l’opposizione di parte della magistratura e della sinistra, il Governo è andato avanti dimostrando di voler davvero portare a compimento una radicale riforma dell’ordinamento giudiziario, necessaria a garantire che il processo penale sia giusto, come dispone la Costituzione. Ne abbiamo discusso con Gaia Tortora – giornalista, conduttrice di La7 e figlia del compianto Enzo – da sempre impegnata sul tema con determinazione ma anche con grande equilibrio, nonostante l’ingiustizia subita dal padre che rimasta nella storia come una delle pagine più buie per la magistratura ma anche per il giornalismo, che si avventò su quella vicenda senza alcuno scrupolo, segnando quello che fu forse il primo esempio di spettacolarizzazione della giustizia in Italia.
Un momento storico per chiunque si dica veramente garantista, eppure l’Anm sostiene che lo scopo della riforma sia “avere una magistratura addomesticata e subalterna che rinunci al proprio compito di controllo della legalità”. Come si spiega l’opposizione così strenua di certa magistratura a un provvedimento che mira ad attuare il giusto processo sancito dall’art. 111 della Costituzione?
«Questo sinceramente non mi stupisce moltissimo, questa è stata sempre una riforma osteggiata e criticata, a prescindere da chi provasse a farla. Per quanto mi riguarda, non vedo un tentativo di delegittimare la magistratura, anzi, al contrario mi sembra un modo per rendere più trasparenti i ruoli nel processo penale. Chi accusa e chi giudica, a mio parere, non dovrebbero far parte dello stesso ordine, condividere la stessa carriera, essere governati dallo stesso organo. Comprendo la preoccupazione espressa, tra l’altro, solo da una parte della magistratura ma non la condivido. Si parla di magistratura “addomesticata” ma a me non sembra, non vedo neanche una possibilità di controllo dell’Esecutivo sul potere giudiziario. Al contrario, un rafforzamento delle sue garanzie di imparzialità e credibilità soprattutto agli occhi dei cittadini».
C’è chi, più o meno in malafede, confonde i piani parlando di efficienza della giustizia e spiegando come questa riforma non velocizzerà i processi, dimenticando che non si tratta di una questione di efficienza ma di giustizia. Dalle pagine di Repubblica, Michele Serra qualche giorno fa ha affermato: “Non sono mai riuscito a sentire o a leggere un solo discorso convincente, a favore della separazione delle carriere”. Cosa si sente di rispondergli?
«Nessuno deve convincere l’altro delle sue ragioni, ognuno è libero di dire o pensare ciò che vuole, in una democrazia con libertà di pensiero e di espressione. Se vogliamo far passare questo referendum, bisogna entrare nel merito altrimenti si rischia di farne un argomento di propaganda politica, cosa molto rischiosa».
Quella della responsabilità dei magistrati per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni è una delle questioni più spinose. Troppo spesso la difesa dell’indipendenza della magistratura si è tradotta in impunità. In un sistema in cui i controllori sono nominati da e tra i controllati, con logiche correntizie, probabilmente è inevitabile. È per questo che, come evidenziava qualche giorno fa il Ministro Nordio, la magistratura teme tanto l’istituzione di un’Alta Corte disciplinare esterna al CSM?
«Il fatto che i controllori attuali siano scelti dagli stessi magistrati, all’interno del CSM crea senza dubbio un sistema in cui il meccanismo di autoregolamentazione può risultare poco trasparente, poco efficace agli occhi di tutti. Per questo l’idea di istituire l’Alta Corte per me rappresenta sicuramente un passo avanti verso una maggiore trasparenza e credibilità all’interno del sistema giudiziario. Anche in questo io non vedo un tentativo di mettere in discussione l’indipendenza della magistratura ma un modo per garantire a chi giudica di essere soggetto a un controllo serio e imparziale. Capisco la resistenza a questo tipo di cambiamento di una parte della magistratura però questa continua resistenza su tutto rischia di alimentare quella sfiducia che oggi abbiamo tra i cittadini, perché la resistenza della magistratura è su tutto. Ci hanno provato anche altri, con altre formule, ma ogni volta che si prova a cambiare qualcosa c’è una resistenza su tutto il fronte».
Quella dei magistrati sembra essere l’unica categoria immune agli scandali che la coinvolgono. Il “verminaio” venuto alla luce con il caso Palamara è passato come un temporale estivo, senza lasciare strascichi e con una generale impunità dei soggetti coinvolti. Rosario Livatino disse dei magistrati: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Quanto è credibile oggi una magistratura in balia delle correnti, costantemente pronta allo scontro politico, anche a suon di sentenze ideologiche, con il Governo?
«Agli occhi dei cittadini, la magistratura non sta passando un bel momento per quanto riguarda la credibilità. Ci sono sondaggi ogni giorno…C’è un protagonismo nella magistratura ma non riguarda tutti. Il Paese è strapieno di magistrati che lavorano in silenzio e tra mille difficoltà».
In un sistema in cui magistrati che godono di fama e credibilità predicano che “non esistono innocenti ma solo colpevoli contro cui non è stata raggiunta la prova”, ha ancora senso parlare di presunzione di non colpevolezza? Se persino chi è preposto all’amministrazione della giustizia in nome del popolo abiura ai più elementari principio del garantismo, come ci si può aspettare che le persone comuni ne comprendano l’importanza?
«Davigo, dopo quella frase, ha provato sulla sua pelle cosa voglia dire e comunque io rimango garantista anche per Davigo. Lui non rappresenta tutti i magistrati. Avrei mille motivi per mettere al rogo tutta la magistratura per quello che è successo a mio padre ma non è così, perché non bisogna fare per tutta la magistratura un unico discorso, Davigo è Davigo, poi ce ne sono altri che ragionano in altro modo. Il suo è un nome importante, che fa share, ma potrei nominare Colombo o lo stesso Di Pietro, che hanno posizioni diverse. Io non ho la ricetta per il garantismo, ma penso che più elementi uno riesce a prendere da più giornali o più siti più riesce ad avere un’idea completa e allargata. Su questo tema, uno scatto in avanti va fatto anche dai giornalisti che troppo spesso per appartenenza politica raccontano le vicende giudiziarie dalla prospettiva di questa o quella parte politica ma la giustizia secondo me non è questo».
Lo stigma che accompagna chi è sottoposto a indagini è, il più delle volte, incancellabile. Neppure un’assoluzione piena, spesso, basta a lavare via il sospetto, alimentato da fiumi di inchiostro che riempiono le pagine dei giornali. Il segreto istruttorio è lettera morta e nessuno si preoccupa di individuare e sanzionare i responsabili. Da giornalista, qual è secondo lei il limite invalicabile nel raccontare una notizia di cronaca giudiziaria?
«In altri Paesi, a cominciare dalla Germania, c’è un rispetto per la giustizia sconosciuto in Italia. Non se ne fa oggetto di propaganda politica e non esistono talk show incentrati su casi di cronaca in cui tutti diventiamo inquirenti, genetisti, avvocati, con un impazzimento generale che porta a condannare le persone fuori dalle aule di giustizia. Non è normale quello che sta accadendo. In altri Paesi c’è un rispetto e una comprensione della giustizia che nel loro DNA è altro rispetto a quello che vediamo in Italia. E nessuno grida al bavaglio».
Con ogni probabilità, dopo l’approvazione, la riforma dell’ordinamento giudiziario passerà al vaglio popolare con il referendum costituzionale. L’Associazione nazionale magistrati è già in campagna referendaria, il suo presidente è pressoché onnipresente sui media e la comunicazione è tutta improntata alla lotta contro il Governo. Si tratta di un argomento delicato e molto tecnico. Come pensa si possa riuscire a far passare il messaggio?
«Il tema andrebbe allargato e purtroppo è un tema che da trent’anni, da Berlusconi in avanti è sempre stato impossibile dividere dalla politica, anche perché la politica non ha mai fatto nulla per restare sul tema: perché sicuramente c’è sempre stata una parte politica che, a volte, ha fatto delle leggi non riuscendo a far capire che riguardavano tutti e non erano solo per se stessa. È sempre stato un grande tema politicizzato. Per questo io dico sempre che la giustizia va restituita ai cittadini, perché è qualcosa che riguarda tutti i cittadini, non dovrebbe avere un titolo. Quando sento dire chiamiamola riforma Berlusconi…ma neanche Tortora! Io che forse avrei qualche diritto sono stata una di quelle che ha detto togliamo i nomi, dobbiamo depoliticizzare. Anche se comprendo che una parte politica magari pensa al suo riferimento, se in questo Paese vogliamo fare un passo avanti, vanno tolte le personalizzazioni e va restituita la giustizia a tutti i cittadini, come è giusto che sia. Come per altri temi, come l’immigrazione, non c’è verso in questo Paese di fare un discorso stando sul merito, perché è un grande tema di propaganda politica, ed è complicatissimo. Alla fine quello che conta sono le vite che rimangono intrappolate in un meccanismo in cui sai quando e come entri e non sai quando e come ne uscirai, purtroppo».
Nel suo libro, “Testa alta, e avanti: in cerca di giustizia, storia della mia famiglia”, racconta la vicenda giudiziaria che ha riguardato suo padre Enzo Tortora. Il calvario di un uomo onesto e perbene, costretto a difendersi da accuse infamanti, condannato in primo grado e poi assolto da tutte le accuse. Non c’è niente che possa riparare all’ingiustizia subita dalla sua famiglia ma possiamo dire che il percorso intrapreso dal Governo è quello giusto per far sì che quello che è accaduto a suo padre non accada mai più?
«La separazione delle carriere per me è un passo avanti nel quadro di una riforma della giustizia che dovrà essere inevitabilmente più ampia, con personale, fondi e velocizzazione dei processi. Spero che venga istituita quella giornata per le vittime degli errori giudiziari che non è nulla di pericoloso ma, nelle mie intenzioni, è una giornata in cui insieme, anche con la magistratura, possiamo andare a spiegare perché accadono certe cose e come si possono evitare. Spero che il Governo riesca a inserire anche questo, sarebbe un bel passo. Tanti hanno provato a realizzare la separazione delle carriere e si sono fermati, probabilmente non hanno avuto la forza né il coraggio di rompere quella barriera. La riforma era nel programma di questo Governo e, numeri alla mano, procederà spedita nelle prossime letture. Occhio al referendum».