
L’Europa è di destra
Fidanza: “Sánchez è alla frutta e la sinistra italiana lo prende a modello. La ricetta perfetta per il disastro”
Il capodelegazione di Fratelli d’Italia a Bruxelles lo dice senza mezzi termini: “Il Pd è un partito europeo spaccato come nessun altro. Sui temi della difesa, del rapporto con le imprese, della transizione ecologica”
«Oggi persino i socialisti copiano Giorgia Meloni. Non è un caso: è il segno che la destra vince non solo alle urne, ma sulle idee». Parola di Carlo Fidanza, capodelegazione di Fratelli d’Italia a Bruxelles e vicepresidente di Ecr party, che proprio non le manda a dire. Intercettato dal Secolo d’Italia a margine di una tre giorni che ha visto la destra europea unita e determinata, Fidanza traccia una radiografia impietosa della sinistra: dalla fine dell’era Sánchez alle spaccature interne del Pd, fino alla mutazione silenziosa dei socialisti del Nord Europa. Ne emerge un quadro chiaro: a Bruxelles la bussola si è spostata, e a orientarla è l’Italia di Meloni.
Onorevole Fidanza, la Spagna vuole i vantaggi della Nato ma senza assumersene costi e responsabilità. Perché questo doppio gioco?
«Perché Pedro Sánchez è alla frutta. Guida un governo assediato da scandali di ogni tipo – corruzione, prostituzione – e tiene in piedi la maggioranza solo grazie al sostegno di un’estrema sinistra radicale, antimilitarista e anti-occidentale. Da qui nasce la sua retorica “dura” durante l’ultimo vertice Nato: una mossa obbligata per rassicurare i suoi alleati interni. Ma è solo propaganda. Alla fine, Sánchez ha firmato gli stessi impegni di Giorgia Meloni e degli altri 32 leader. Quindi, tanta scena e poca sostanza».
Eppure in Italia c’è chi continua a vedere in Sánchez un modello.
«Certo, Elly Schlein è la prima. Surreale. Lei e il Pd lo citano come esempio virtuoso mentre guida un governo fallimentare, pronto a cadere. Il fatto è che in politica estera e di difesa, i dem nostrani non hanno uno straccio di proposta. Dicono no a Meloni, ma non dicono mai cosa farebbero al suo posto. Sulla difesa comune europea, per esempio, si contraddicono continuamente: da un lato vogliono un’Europa che si doti di strumenti militari, dall’altro elogiano l’ignavo Sánchez».
Quindi è un’alleanza incoerente, anche sul piano europeo.
«Esatto. Sánchez è diventato un feticcio per la sinistra italiana, ma è un alleato impresentabile. E la spaccatura è evidente anche dentro al gruppo dei socialisti europei: la componente spagnola è forte, ma coesiste con l’ala nordica – penso a leader come la danese Mette Frederiksen – molto più pragmatica. È stata proprio Frederiksen a pronunciare in plenaria parole che avrebbero potuto essere scritte da Giorgia Meloni sulla stretta all’immigrazione incontrollata».
Sta dicendo che il “modello Meloni” sta facendo scuola anche tra i governi di centrosinistra?
«Persino i socialisti, quando si avvicinano al potere o vogliono conservarlo, si accorgono che l’elettorato si è spostato a destra e che devono accontentarlo. Allora correggono la rotta e diventano realisti. Lo ha fatto Starmer, lo ha fatto Scholz quando era ancora in sella, lo ha fatto Frederiksen. Anche Malta – socialista, ma durissima sui migranti – ha sempre negato l’attracco delle navi e ha scaricato tutto sull’Italia».
E in Francia?
«Macron era anche lui l’idolo della sinistra europea. Ora è costretto a frenare: ha fatto marcia indietro sull’accordo di Parigi e sul regolamento “Green Claims”. Perché? Perché ha capito che imporre nuove tasse e vincoli sulle emissioni – come il folle obiettivo del -90% al 2040 – significa colpire famiglie e imprese. E se la Francia si unisce a noi per rivedere quei target ideologici, per l’Italia è una vittoria sia simbolica che politica. È il fronte del buon senso che si allarga».
È anche il segno della centralità di Giorgia Meloni?
«Certo. È Meloni che detta la linea. I leader europei inseguono. Vuol dire che l’Italia oggi è protagonista. E anche se certi alleati tardano ad arrivare o lo fanno per convenienza, in questa fase sono comunque utili per rafforzare la nostra battaglia per una transizione più pragmatica».
Lei è sempre a Bruxelles, ha notato malumori tra i dem europei e quelli del Nazareno?
«I malumori ci sono e si vedono. Il Pd al Parlamento europeo è diviso in almeno due – se non tre – correnti. Sui temi della difesa, del rapporto con le imprese, della transizione ecologica, si nota una frattura tra l’ala più vecchia scuola, radicata nei territori, e quella legata alla segreteria Schlein, fortemente ideologica e filo-spagnola. È un partito europeo spaccato come nessun altro. Basta vedere i voti in aula: il Pd si divide sistematicamente.
Nel frattempo il Ppe guarda sempre più a destra…
«E per noi è un’opportunità: perché il Ppe, se vuole correggere le derive ideologiche della scorsa legislatura, è costretto a guardare verso destra. Questo mette in crisi l’asse di potere che aveva portato all’elezione e alla riconferma di Ursula von der Leyen. L’attuale confusione della sinistra nasce da qui: crisi di leadership, crisi d’identità, crisi di numeri. E rispondono con retorica, ma restano sempre più isolati».
E mentre denunciano le “allanze pericolose”, in aula cosa succede?
«Succede che, mentre loro gridano allo scandalo, noi votiamo col centrodestra e vinciamo. È accaduto sulla legge sul clima, sulla deforestazione, sulla risoluzione sui crimini del comunismo. La sinistra si è persino ritirata dal negoziato su quella risoluzione. Risultato: approvata a maggioranza, senza di loro. Ecco la verità: mentre urlano contro i “sovranisti”, restano ai margini e vengono battuti sui fatti».