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villaggio cristiano assediato Cisgiordania

Il mondo dimenticato

Cisgiordania, il villaggio cristiano assediato dai coloni: “Non abbiamo diritto di vivere”. Papa Leone sente l’Olp

Il parroco cattolico di Taybeh: «Non avevamo mai visto niente del genere in passato. Ormai sono liberi di fare ciò che vogliono. In queste settimane hanno incendiato case e automobili. E noi ci sentiamo completamente indifesi»

Cultura - di Alice Carrazza - 21 Luglio 2025 alle 15:58

«Viviamo una vita difficile, pericolosa. Non abbiamo alcun diritto di muoverci. Non abbiamo diritto di viaggiare, di lavorare, di giocare, di fare qualsiasi cosa. Insomma, non abbiamo alcun diritto di vivere». Parla così padre Bashar Fawadleh, parroco cattolico di Taybeh, l’ultima roccaforte cristiana della Cisgiordania. Non è uno sfogo. È una dichiarazione cruda, fatta mentre il suo villaggio — l’antica Efraim citata nel Vangelo di Giovanni — è stretto in un assedio silenzioso e progressivo. I coloni, racconta, hanno “alzato il tiro”. Ma nessuno spara per farsi notare. È l’occupazione a bassa intensità, quella che corrode dall’interno e in cui le violenze, gli incendi, i furti d’acqua e i soprusi non finiscono sulle prime pagine.

Il villaggio cristiano dove non si può entrare né uscire

La vita quotidiana di Taybeh si consuma nella tensione, nella paura. Dal 7 ottobre 2023, spiega padre Fawadleh, tutto è cambiato. «Hanno iniziato occupando la nostra terra. Hanno costruito edifici, insediamenti e case per i coloni. Poi hanno cominciato con i posti di blocco militari per rendere difficile anche solo entrare o uscire dal villaggio», ha spiegato al Messaggero.

Un tempo bastavano venti minuti per raggiungere Gerusalemme. Ora ci vogliono ore, se si riesce a partire. Ma ciò che più colpisce è il salto qualitativo della violenza. «Non avevamo mai visto niente del genere in passato. Ormai sono liberi di fare ciò che vogliono. In queste settimane hanno incendiato case e automobili. Non lontano da qui, a Kafr Malik, hanno anche ucciso dei palestinesi. E noi ci sentiamo completamente indifesi».

Bastoni, fuoco e violenza

Taybeh è diventata terreno di conquista per una guerra che non si dichiara mai ufficialmente. Una mattina come le altre, uno dei coloni decide di portare le sue mucche tra le case del villaggio. «Le ha messe davanti alle porte delle case, davanti agli edifici, vicino alla chiesa. E il messaggio è chiaro. Lui gira con le sue mucche o a cavallo e ti dice: “Io sono qui e non potete farmi niente”».

Padre Bashar parla con voce ferma, ma non nasconde la frustrazione. «Più volte i miei parrocchiani sono stati colpiti con bastoni di legno o sbarre di ferro semplicemente perché andavano nei propri campi o pascolavano le proprie pecore. Hanno anche rubato le cisterne d’acqua e preso gli alberi. Ora portano anche il bestiame nelle nostre terre».

“Siamo pacifici. Ma se reagiamo, interviene l’esercito”

Non ci sono armi a Taybeh. Non ci sono milizie, né uomini pronti allo scontro. Solo famiglie e anziani che resistono. «Noi non vogliamo violenza. Sappiamo che queste sono provocazioni. Ma se reagiamo, interviene l’esercito. È già successo: i soldati israeliani sono entrati nel nostro paese e hanno sfondato le porte delle case. Sono arrivati armati fin dentro le camere da letto, ma non hanno trovato nulla. Perché qui non c’è niente».

Una comunità millenaria sull’orlo dell’estinzione

Taybeh è l’unico villaggio interamente cristiano rimasto nella West Bank. Eppure, la fede non basta a proteggerlo. Non più. «Se leggete il Vangelo di Giovanni, vedete che qui, in questo villaggio, Gesù si fermò dopo la resurrezione di Lazzaro. All’epoca, Taybeh si chiamava Efraim. Questo significa che la nostra comunità è sempre esistita, è sempre stata importante, ma ora sta scomparendo».

Lo spopolamento è istintivo. Si fugge per sopravvivere. «Tanti non vogliono andarsene. Ma tanti sono stati costretti a emigrare. Già dieci famiglie sono andate via. C’è chi è andato in Guatemala, chi in Cile, chi negli Stati Uniti. È una diaspora. E non torneranno».

“Soffriamo come tutti i palestinesi”

Chi cerca nel martirio cristiano una chiave di lettura, si sbaglia. La linea che separa le fedi, a Taybeh, non esiste più. «Noi siamo colpiti perché siamo palestinesi. Non c’è alcuna differenza tra cristiani di diverse confessioni o tra cristiani e musulmani. Soffriamo esattamente come soffrono i musulmani negli altri villaggi. Viviamo le stesse sfide, le stesse difficoltà, le stesse situazioni. Ma vogliamo solo vivere in pace».

Il dramma continuo nella Striscia

La Striscia intanto è al collasso: sarebbe almeno 58.895 morti e oltre 140.000 feriti. «Come si può distruggere e affamare una popolazione come quella di Gaza?» ha chiesto il cardinale Parolin. L’87,8% del territorio è oggi zona evacuata o militarizzata. «Diamo tempo, quello che è necessario — aveva aggiunto il segretario di Stato vaticano dopo l’attacco alla Chiesa cristiana a Gaza — perché ci dicano che cosa è effettivamente successo, se è stato veramente un errore, cosa di cui si può legittimamente dubitare».

Il monito di Papa Leone

Non è un caso che, proprio questa mattina, sia giunta la telefonata del presidente dell’Olp Mahmoud Abbas a Papa Leone XIV. Lo conferma il Vaticano, che in una nota riferisce del colloquio avvenuto tra i due: il Pontefice avrebbe ribadito «l’appello al pieno rispetto del diritto internazionale umanitario», sottolineando tre principi fondamentali: la protezione dei civili, la tutela dei luoghi sacri e il divieto dell’uso indiscriminato della forza e del trasferimento forzato delle popolazioni. Il Santo Padre ha poi espresso forte preoccupazione per la crisi umanitaria in atto, evidenziando l’urgenza di soccorrere le fasce più vulnerabili della popolazione e garantire un accesso adeguato agli aiuti umanitari.

Infine, non è mancato un riferimento simbolico al decimo anniversario dell’Accordo Globale tra la Santa Sede e lo Stato di Palestina, firmato il 26 giugno 2015 e entrato in vigore il 2 gennaio 2016: un’intesa che, oggi più che mai, richiama al valore della diplomazia e del dialogo.

Lanciata l’operazione di terra a Deir al-Balah

L’appello della Chiesa di Roma non basta. A Deir al-Balah, proprio in queste ore, le truppe israeliane hanno inoltre lanciato la prima operazione di terra nella zona. L’attacco, accompagnato da bombardamenti aerei e artiglieria pesante, ha provocato altri otto morti secondo fonti mediche palestinesi. Il raid ha colpito abitazioni civili e moschee, mentre le autorità militari affermano che l’operazione mira a smantellare infrastrutture terroristiche che deterrebbero ancora gli ultimi ostaggi. 

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di Alice Carrazza - 21 Luglio 2025