
Da Albatross al Mozambico
Grilz, a colloquio con Biloslavo e Micalessin: “Tutto comincia a casa di Almerigo. Quando un sogno ti brucia dentro, non finisce mai”
“Si è tutto vero, andò proprio così. Eravamo a casa di Almerigo, in via Rossetti a Trieste, e io sfogliavo il dizionario cominciando dalla lettera A per cercare un nome adatto all’impresa. Quella scena del film è fedelissima”. Gian Micalessin sorride ricordando insieme a Fausto Biloslavo la genesi di Albatross Press Agency, il sogno di tre giovani scapestrati triestini, giornalisti e amici fraterni, che si fa realtà. Andare in giro per il mondo a filmare, documentare le guerre dimenticate all’ombra della Cortina di ferro. Liberi, senza padroni. “Oggi si chiamano giornalisti indipendenti ma freelance vuol dire libero, contratto libero, come l’Albatross”, dice Biloslavo. “Come quel grande gabbiano invincibile che affascinava Almerigo e che, si racconta, fa naufragare i marinai che lo colpiscono”.
La nascita di Albatross a casa di Grilz sfogliando il dizionario
A poche ore dall’uscita nelle sale d’Italia di Albatross, (regia di Giulio Base prodotto da One More Pictures con Rai Cinema e distribuito di Eagle Pictures), il film su Almerigo Grilz, primo reporter italiano ucciso in battaglia del dopoguerra, ne parliamo insieme ai co-protagonisti di quell’epopea. Poco più che ventenni allora, oggi sopra ai 60, dal giorno dell’attentato a Mogadiscio, il 19 maggio 1987, hanno continuato testardamente a tenere in vita un sogno di libertà e a farsi carico di un’eredità pesante. Che vive e si tramanda. “Ah dimenticavo – ci dice Gian Micalessin alla fine della nostra chiacchierata – mio figlio di 8 anni di chiama Almerigo”.
Il film coraggioso su Almerigo e i nostalgici degli Anni di piombo
Oggi Fausto e Gian possono “brindare” a una pellicola che restituisce la verità a quella storia misconosciuta per decenni. Non più figli di un dio minore, si interrompe la congiura del silenzio, anche se qualche nostalgico del sapore acre degli anni di piombo in giro si trova sempre. Per 21 anni l’ordine dei giornalisti di Trieste si è rifiutato di apporre la targa in ricordo di Almerigo Grilz insieme a quella degli altri inviati di guerra caduti sul campo. “Non può diventare un orto lapidario, dicevano quando rispondevano alle richieste”. Un’ostinazione ideologica che fa da fil rouge alla trama del film. Ancora oggi sulla bacheca Facebook di Trieste Cinema si leggono commenti di chi si rammarica che “Grilz non sia morto in foiba come gli altri”.
“Ci ritroviamo nei personaggi, gli attori hanno studiato molto…”
È un bel film, cast indovinato, quasi tutti under trenta, regia coraggiosa, un grande risultato, visto anche il budget scarno. Vi ritrovate nei personaggi? “Ma sì. Gli attori hanno studiato molto”, scherzano. “Io mi ritrovo abbastanza nella scene della cacaia, la dissenteria era vera. Anche i colloqui e le conversazioni sono molto fedeli”. E Almerigo? Nella pellicola è un ragazzo scanzonato, impetuoso e poco razionale. Era così? “Forse nella realtà era più ‘quadrato’ – dice Micalessin – ma il protagonista del film rappresenta bene i sogni di Almerigo, dirigente del Fronte della Gioventù di Trieste, che dopo la strage di Bologna dice basta. Si indigna per i tanti morti e decide di cambiare. Quello fu un punto di non ritorno”.
La strage di Bologna, la caccia ai neri e la seconda vita
Sì, fu uno spartiacque. Biloslavo ricorda la “pista libanese” creata ad arte dai servizi segreti deviati come fu documentato negli atti del processo, la caccia al fascista, le indagini anche su Grilz che era a Londra. “Erano finiti gli anni di piombo, gli anni durissimi della guerra civile latente. E noi cominciavamo a chiederci cosa fare da grandi. Eravamo innamorati di questo sogno del giornalismo di guerra, nel mondo eravamo i crazy italians”. Quando tutto finisce, quando evapora l’adrenalina della piazza (il film si apre con gli scontri tra rossi e neri) Almerigo non resiste alla voglia di trasformare la passione per i viaggi in una missione.
La passione per i viaggi in autostop come gli hyppies
“Partiva in autostop come gli hyppies di quegli anni. Era diretto a Londra, la sua città preferita, ma prima passava da Francia, Danimarca, Norvegia dove vendeva collanine per pagarsi le spese. Faceva il vu cumprà…”. Ci scherzano sopra. “Più che ‘quadrato’ direi british”. Con la sua passione sconfinata per Londra e per il Burberry. Lo stesso che indossa nell’unica e ultima foto fatta con Gian e Fausto (loro indossano un giaccone di montone), scattata dalla fidanzata dell’epoca di Micalessin, Elisabetta Ponzone. A Trieste un mese prima di morire. “Era tornato da uno dei suoi viaggi – racconta Micalessin – mi sveglia alle 10 di mattina e mi dice ‘dai vediamoci in piazza Unità, andiamo giù, siamo tutti e tre a Trieste e non abbiamo una foto insieme. Non si sa mai”. Sarà anche l’ultima. “Poi mi dice di aver perso l’aereo per Roma. Lo accompagno in stazione a Mestre, direzione Mozambico. ‘Stai attento’, dice a me che ero in partenza per il Nicaragua”.
Aveva una percezione rarefatta della paura, anche in Mozambico
Nel film Grilz, interpretato da Francesco Centorame, dimostra un coraggio senza limiti, quasi inumano. “Aveva della paura una percezione rarefatta. La registrava ma non la sentiva. In Afghanistan al primo viaggio, mentre facciamo colazione in un villaggio, arrivano i mig russi che bombardano. Almerigo è poco più avanti di noi mentre la bomba viene giù. Io e Fausto ci buttiamo a terra e penso ‘siamo fottuti’. Lui, 5 metri più avanti, resta in piedi a riprendere il fungo che riempie l’obiettivo mentre la bomba cade a a 30 metri da lui lasciando una voragine”. Nell’intervista televisiva con Ambrogio Fogar per Jonathan dimensione avventura lo dice chiaramente “quando si guarda nell’obiettivo non ci si rende conto di cosa succede”. Anche in Mozambico andò così. “Geronimo Malagueta, che era con lui affidato alla sua custodia, ci ha raccontato che c’è stato poco da fare, c’era un cecchino, lui sente il sibilo e vede Almerigo che cade a terra. Muore filmando senza rendersi conto”.
La posa della lapide sotto il grande albero dove riposano le spoglie
Colpito da una pallottola alla nuca durante gli scontri a fuoco tra i guerriglieri della Renamo e i governativi del Frelimo, Almerigo riposa sotto il grande albero dove chiuse gli occhi per sempre a 34 anni. Alla cerimonia per la posa della lapide, testardamente voluta da Fausto e Gian (documentata da “Missione Mozambico 2025” di Davide Arcuri), erano presenti due rappresentanti in alta uniforme delle due ex fazioni nemiche, entrambi si inchinano davanti a lui come a un fratello, “uno di loro”. A Fogar che gli chiede se ha paura risponde: “Noi siamo testimoni, non siamo soldati, non verremmo colpiti”. Come avete saputo della morte? “Io ero in Nicaragua, rientro a Trieste da Lugano – dice Gian – e vedo alla stazione Fausto e la mia fidanzata che mi aspettano e capisco subito. Bad news…”.
Il telegramma di condoglianze di Capuozzo a nome di Lotta Continua
Ma Almerigo era di destra, consigliere comunale del Msi, e il mondo non vuole saperne. Solo Toni Capuozzo, che nel film veste i panni di Vito, interpretato da adulto da un monumentale Giancarlo Giannini, scrive un telegramma di condoglianze a nome di Lotta Continua. Nel film e nella vita dei “tre moschettieri del Fronte della Gioventù” c’è tanta Trieste, occupata nel 1945 e non italiana fino al 1954. “Siamo tutti figli di esuli istriani. La nostra città era sulla linea di demarcazione tra Occidente e Urss. Quando con la famiglia cenavamo in riva i genitori ci dicevamo ‘se arrivano i russi noi restiamo indietro’ perché nella strategia Nato non era prevista la difesa di Trieste. Avevamo in noi il concetto di guerra immanente. Quando l’Afghanistan viene invaso si parte. Per noi era come andare a raccontate cosa poteva accadere alla nostra città con la Cortina di ferro a 9 km”.
Il tema del dialogo, romanzato ma sperimentato da una minoranza
Nel film c’è la tela tessuta dal tema del dialogo, un po’ spinto e romanzato. Ma fotografa le pulsioni di un’anima movimentista, anche se minoritaria, che esisteva tra le pieghe della militanza. Autentica la voracità con cui Almerigo scatta foto, riprende, scrive sul suo taccuino e disegna, disegna continuamente. “Quaranta anni fa per primo scopre la multimedialità, la filiera tra video, fotografia e scrittura. Cinepresa super 8, macchina fotografica e bloc notes. Almerigo si fa comprare dal Msi le cineprese per andare in Mozambico. Ed è sempre lui a filmare le immagini dei cortei, dei congressi, un materiale d’archivio immenso”. Pioniere, sperimentare spericolato. E il flusso dei ricordi si tinge di goliardia. “Quando rapiscono Moro inventa quel manifesto ripreso da tutti i giornali d’Italia con la scritta ‘Chi semina vento raccoglie tempesta’. Non proprio politicamente corretto”. Per non dire di quando, in occasione della visita di Berlinguer a Trieste, fa preparare un finto volantino delle Br che viene distribuito davanti alle scuole. “Con la polizia che ci rincorre e la città presa dal panico. Ma nel volantino brigatista c’è una scritta piccolissima che recita Centro contro-informazione Fronte della Gioventù”.
Era avanti ed è morto troppo presto, prima di Fiuggi
Era avanti ed è morto troppo presto. E veniva dalla parte sbagliata, missino, fascista, un marchio di infamia che gli costò in Italia un lungo oblio mentre i suoi reportage avevano sedotto mezzo mondo. “Quando nel 1985 Panorama ci chiama per le foto e il servizio sulla Cambogia ci riceve Ottolenghi, all’epoca caporedattore. Ci dice che il lavoro è bellissimo e ci chiede se è vero che siamo stati nel Fronte della Gioventù, se è vero che Grilz è stato consigliere del Msi. Certo, rispondiamo, ma quale è il problema?”. Il problema c’è. Ed è un macigno, un marchio di infamia, non si può lavorare. Almerigo dovrà firmare i suoi reportage con il cognome Grigli e Biloslavo per un periodo si firma Fausto Capitano.
Oggi avrebbe 72 anni, forse vivrebbe a Londra
Il film, una lunga gestazione che risale al 2019, sfida l’ideologia, senza vittimismo (che ai tre moschettieri non appartiene) restituisce la verità su Almerigo uomo, militante e giornalista. Il tempo è galantuomo: Fausto e Gian sono d’accordo ancora una volta. “Almerigo è morto troppo presto, prima di Fiuggi, prima della riabilitazione della destra. Almerigo muore fascista e resta fascista”, dice Micalessin. Biloslavo estende il concetto alla professione. “Non ha avuto il tempo di maturare, di sperimentare, di vivere i tanti cambiamenti nel giornalismo italiano”. Oggi avrebbe 72 anni. “Me lo vedo a Londra, sposato con un’inglese e io che vado a trovarlo”. “Io me lo immagino ancora lì, sul Molo Audace della foto. Lo vedo libero come è sempre stato. Sarebbe ancora un grande innovatore, forse direttore di un giornale, magari in Gran Bretagna”.
Tutte le guerre finiscono e bisogna voltare pagina, resta il ricordo dei caduti
Quasi un’ora di telefonata, il tempo stavolta è tiranno. Ancora pochi minuti per dire che con Albatross Almerigo esce finalmente e definitivamente dall’oblio dell’inviato ignoto. Il film dà un grande messaggio ai giovani. “Quando abbiamo iniziato la nostra avventura eravamo mossi da un fuoco, al di là delle ideologie. Se hai un sogno e una passione devi andare avanti a dispetto di tutto e di tutti”. La storia dell’amicizia tra rossi e neri è romanzata ma è una bussola. “Ancora adesso – dice Biloslavo – con alcuni di quelli andiamo a bere un bicchiere ricordando quegli anni terribili. Tutte le guerre finiscono prima o dopo. Anche quella terribile in Mozambico è finita. Gli africani ci hanno insegnato che bisogna voltare pagina e che quella pagina non deve tornare. Resta il ricordo dei caduti e di chi è stato testimone”. Ultima lezione preziosa. “Quando siamo partiti pensavamo che il mondo fosse tutto in bianco e nero, che tutti i buoni stessero da una parte e i cattivi dall’altra. Invece i cattivi sono ben distribuiti ovunque”. Ma anche i buoni.