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Dietro il Doge show

Non chiamatelo divorzio: tra Musk e Trump è divergenza di visioni, non rottura. E la sinistra attacca il vuoto

Andrea Venanzoni smonta la narrativa della "separazione" tra i due tycoon. Non una frattura, ma due modi alternativi di vedere le cose all'interno della destra americana. Il patron di Tesla resta comunque al centro dell'immaginario globale

Esteri - di Alice Carrazza - 1 Giugno 2025 alle 08:00

Tra Elon Musk e Donald Trump non è un divorzio. E chi ha provato a cavalcare la narrazione della rottura tra i due tycoon ha fatto male i conti. A dirlo, con lucidità e rigore, è Andrea Venanzoni, costituzionalista, Segretario generale del Forum nazionale delle professioni e studioso del rapporto tra diritto, media e tecnologie, nonché autore di “Tecnodestra. I nuovi paradigmi del potere”, che parlando al Secolo d’Italia smonta punto per punto l’illusione di uno strappo e riporta la vicenda nel suo contesto reale: un disallineamento strategico, non una frattura ideologica.

La fine del Doge? Solo sulla carta

A scatenare il polverone sono state le dimissioni di Musk dal Doge, il Dipartimento per l’efficienza governativa, formalmente avvenute allo scadere dei 130 giorni previsti per evitare sanzioni sul conflitto d’interessi. Tempistica programmata, dunque, che smentisce le ricostruzioni fantasiose su presunte liti improvvise o sull’uso di stupefacenti da parte del proprietario di X, ipotesi rilanciate ad arte per far credere a uno scontro con il presidente.

«Io credo che ci sia una divergenza di vedute che non riguarda solo l’amministrazione americana, ma più in generale l’intero apparato tecno-industriale di cui Musk è solo il volto più visibile, e l’atteggiamento sempre più incontrollato di una parte del mondo Maga», spiega Venanzoni.

Steve Davis, l’uomo chiave che se ne va

Il segnale più chiaro non viene neppure da Musk, ma da Steven Davis, uomo chiave e presidente della Boring Company, che lascia insieme a lui. «Era il vero deus ex machina del Doge. Se se ne va anche lui, è un segnale».

Il nodo è però legislativo. I tagli operati dovevano essere resi strutturali con un passaggio parlamentare. Quel passaggio non c’è stato. Il bill è stato, per usare le parole del parlamentare libertario Thomas Massie, «grandemente annacquato». Risultato: un addio pianificato, ma con un messaggio politico di fondo.

Il fronte culturale: libertari, conservatori, tycoon

«C’è una divaricazione sempre più netta tra l’anima ipercarismatica e poco strutturata del Maga e quella dei liberal-conservatori, dei libertari e dei big della Silicon Valley. E il disallineamento si estende anche alla Federalist Society, l’associazione che ha segnato una svolta storica nella nomina dei giudici conservatori. Trump, con i suoi attacchi contro l’architetto del potere giudiziario conservatore Leonard Leo, rischia di alienarsi anche questo mondo».

Venanzoni sottolinea come la sentenza della U.S. Court of International Trade contro i dazi di Trump, sospesa dalla Corte d’Appello, non sia affatto frutto di attivismo progressista: è una sentenza originalista, figlia della cultura giuridica della Federalist Society. «È qui che si consuma lo scontro. Il problema non è personale, è culturale: tra chi vuole uno Stato forte e chi un mercato sovrano».

L’immaginario non si scalfisce

Musk resta, però, centrale nell’immaginario della destra globale. «Rappresenta un conglomerato di intelligenze e poteri, da Peter Thiel, finanziere e cofondatore di PayPal e Palantir, a Palmer Luckey, imprenditore della difesa e creatore di Oculus. E nonostante non segua più pedissequamente la linea trumpiana, l’interesse economico è ancora un collante formidabile». A confermarlo c’è il recente contratto multimilionario tra il governo Usa e la società di Thiel. «È uno dei lasciti più forti dell’era Musk al Doge».

La sinistra sbaglia bersaglio

E mentre a sinistra qualcuno esulta prematuramente per la presunta spaccatura, l’esperto mette in guardia: «Musk non è Bannon. Ha potere reale. Ed è diventato lo spauracchio perfetto per una sinistra che, come al solito, prende la mira ma sbaglia bersaglio».

Il riferimento è anche allo spot del Pd per il 2×1000, che mette nel mirino proprio Musk, simbolo della “deriva destrorsa” e della “politica svenduta ai multimiliardari”. Un’operazione, secondo Venanzoni, che rivela più ossessione che strategia: «È una battaglia già persa. Musk è ovunque, e il tentativo di demonizzarlo non farà che rafforzarne il peso simbolico».

Soros, l’egemonia culturale della sinistra

Se i dem elevano il patron di Tesla a nemico immaginario solo per colpire Giorgia Meloni, lo fanno tuttavia eludendo una parte essenziale della narrazione: quella che riguarda il suo legame storico con George Soros. Nessuna parola, infatti, sulla rete di potere costruita dal finanziere ungherese, principale sostenitore di molte cause progressiste in Europa e negli States. Una rete che non si affida alle campagne elettorali, ma agisce da anni con metodo e continuità, entrando nei centri vitali della vita pubblica e culturale.

«Soros ha costruito un’egemonia pervasiva, a lungo termine, insidiandosi nei nodi vitali dello Stato: magistratura, accademia, attivismo. A destra niente di simile è accaduto», ammonisce Venanzoni.

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di Alice Carrazza - 1 Giugno 2025