
Disfatta azzurra
Magari bastasse cacciare Spalletti: la verità è che non siamo più un popolo di pallonari
«I norvegesi ci hanno dato una lezione, è sembrato di ripiombare improvvisamente nel clima degli Europei dello scorso anno. Nulla è perduto, in ogni caso abbiamo cinque mesi per dimostrare ancora una volta di aver imparato qualcosa da questa lezione». L’ottimismo del ministro per lo Sport e dei Giovani, Andrea Abodi, all’indomani del pesante ko per 3-0 contro la Norvegia, cozza contro il pessimismo della ragione (e dei risultati).
Inutile fare gli struzzi: la Nazionale azzurra rischia di mancare anche la qualificazione ai Mondiali 2026. Sarebbe la terza volta consecutiva, uno scenario apocalittico per un Paese che del “calcio all’italiana” ha fatto il suo marchio di fabbrica e che vanta quattro titolo mondiali. La soluzione per molti è già stata scritta. Cacciamo Spalletti? Ne sono convinti anche tifosi azzurri illustri come il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, che invita a mandare a casa il tecnico di Certaldo.
Ipotizzare però che i ritorni degli Acerbi e Mancini di turno e un cambio modulo improvviso risollevi miracolosamente le sorti del nostro calcio, è ignorare il dato più evidente e di più difficile soluzione.
Le polemiche sui vertici sportivi si ripetono infatti da diversi lustri, ma non inquadrano il vero e desolante scenario. Non siamo più un popolo di pallonari. Ha sorriso (chi non tifa Inter) della squadra di Simone Inzaghi surclassata dal Paris Saint Germain in finale di Champions League. Chi ironizzava guardava il dito ma non la luna.
Che cosa è successo al calcio italiano, meno di vent’anni dopo l’Italia di Lippi? Il declino, tolta la meravigliosa parentesi degli Europei vinti dall’Italia di Mancini, è sotto gli occhi di tutti e non nasce ieri. Siamo da anni un calcio senza certezze. E un calcio “incerto” e senza identità crea calciatori deboli.
La verità che non siamo più da tempo un popolo di pallonari. Il calcio ha perso fascino soprattutto tra le ultime generazioni. Il test è semplice da fare. Chi scrive è transitato in una scuola elementare durante la ricreazione. Nell’ampio cortile il pallone da calcio, quasi sgonfio, era in un angolo. Nessuno dei tanti bambini si è mai avvicinato a calciarlo. Qualcuno ha invece approfittato di quello da basket per fare qualche tiro al canestro montato poco distante: gli altri bambini, come gremlins impazziti, si sono dedicati a ogni tipo di attività fisica, anche quelle meno immaginabili, ma quel pallone da calcio è rimasto fermo per tutta la ricreazione.
I bambini preferiscono Sinner a Raspadori
Provate anche il test sullo sport praticato: si resta stupiti dalle risposte. Emerge prepotentemente il tennis per l’effetto Sinner, seguito da altre sane attività sportive che piacciono tanto alle mamme (nuoto, pallavolo, ginnastica ritmica per le bambine) o altre più creative, come il “parkour” che fa venire le vertigini solo a guardarlo.
Il calcio è quasi relegato ad attività poco edificante, poco salubre, poco glamour. La sua forza, quello di essere uno sport che chiunque poteva praticare, è diventato la sua debolezza, in questa Italia del “mi piace” e dei “selfie”. È roba da poveri. L’immaginario pallonaro si è sgretolato gradualmente. Le mitiche figurine Panini ci sono ancora, ma sono relegate a fenomeno minoritario rispetto al passato. Oggi, i ragazzini sono più interessati ai Pokemon che ai successori di Pizzaballa e degli altri calciatori. Scarlatto Rosso batte Raspadori 3 a 0.
Non aiuta nemmeno un calcio con le partite spezzatino, parcellizzate addirittura dal venerdì al lunedì. Quando gioca la Juve? Boh. Un tempo era tutto scandito secondo una liturgia che rendeva speciale il campionato. Domenica, ore 15. E, con l’ora legale, una o due ore più tardi. Senza deroghe. Il mercoledì le coppe internazionali. Stop. Giocatori che restavano nella squadra di appartenenza tutta la carriera non erano una rarità. Ora anche il più fedele resta poche stagioni. Se togli il rito e togli gli idoli distruggi una religione. E la religione calcio è stata distrutta così. L’ultimo idolo pagano è stato Totti con la Roma. Prima, ogni grande squadra aveva il suo.
Il calcio demolito pezzo a pezzo con la logica del business
L’Inter di Facchetti, il Milan di Rivera, il Cagliari di Gigi Riva. Nelle canzoni, Pupo poteva permettersi di citare Antognoni nel suo ‘Santa Maria Novella’, identificazione perfetta con la squadra della città. A riscriverla oggi, Pupo impazzirebbe per scegliere un calciatore identificativo della Fiorentina. Farebbe prima a citare il patron italo americano Comisso.
A proposito di proprietà straniere, l’immaginario è stato abbondantemente demolito nel nome del business (prima c’erano i presidenti tifosi, come Ernesto Pellegrini, scomparso recentemente) che compravano la squadra come una missione sociale.
Perfino le divise sociali cambiano radicalmente ogni anno. Come pure cambiano radicalmente le rose dei giocatori, per la stragrande maggioranza stranieri, che fanno un paio di giri di giostra e passano al miglior offerente. Non fanno più notizia formazioni della serie A che schierano l’intero 11 titolare con altrettanti calciatori stranieri. E con queste premesse, come possiamo stupirci se persino la Norvegia riesce a umiliarci? Non facciamo gli struzzi: il giocattolo calcio, almeno in Italia, si è rotto da parecchi anni. Magari bastasse mandare a casa Spalletti per aggiustarlo.