
La strategia
Il piano Mattei contribuirà alla fine del franco CFA? La giusta intuizione della Meloni sul “cappio” all’Africa
La moneta della "Françafrique" è uno strumento tutto sbilanciato a favore di Parigi e i tentativi africani di liberarsene sono stati sempre boicottati o repressi. Giorgia Meloni ha introdotto un paradigma opposto: la cooperazione paritaria per lo sviluppo del Continente
Nel 2019, Giorgia Meloni, in una trasmissione televisiva diventata virale, attribuì al franco CFA, e per estensione a Parigi, la responsabilità sia della povertà nell’Africa subsahariana francofona sia delle migrazioni verso l’Europa. Merito di Giorgia Meloni fu di aver posto al centro del dibattito politico la scottante questione sulla fine del franco CFA. Il Piano Mattei per l’Africa e il franco CFA sono due concetti distinti, ma correlati al contesto delle relazioni con l’Africa.
Il Piano Mattei è un’iniziativa del governo italiano volta a promuovere una nuova forma di partenariato con i Paesi africani, basata su cooperazione e sviluppo reciproco, superando la tradizionale logica donatore-beneficiario e volta anche ad affrontare le cause profonde delle migrazioni irregolari. Il franco CFA, invece, è una valuta utilizzata da diversi Paesi dell’Africa occidentale e centrale, con implicazioni significative per le loro economie e per le relazioni con la Francia.
La logica del piano Mattei è opposta a quella del franco CFA che ha avvantaggiato, nel corso degli anni, i grandi gruppi francesi che si sono trovati spesso in una situazione di monopolio, realizzando enormi profitti grazie ai bassi costi del lavoro e alle generose esenzioni fiscali. Alcuni analisti, come l’economista togolese Kako Nubukpo, cacciato dall’Osservatorio sulla Françafrique per insanabili contrasti con il presidente francese Emmanuel Macron, ritengono che i governi della zona franco CFA abbiano dimostrato una “servitù volontaria”, accettando le regole del gioco imposte dalla Francia. Lo storico burkinabé Joseph Ki-Zerbo ha parlato invece di “dolce alienazione”, mentre il politologo Horace Campbell non è così provocatorio quando scrive che “senza la ricchezza dell’Africa, la Francia sarebbe una potenza minore con la stessa influenza dell’Austria”.
Il piano Mattei prevede che il rapporto con l’Africa debba cambiare ed essere basato sul rispetto reciproco e non su un approccio paternalistico e predatorio, come purtroppo spesso è accaduto in passato.
Il franco CFA esiste dal 1945 e unisce quattordici Paesi uniti in due zone monetarie: Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo, da un lato, che appartengono all’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (UEMOA); Camerun, Gabon, Ciad, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana e Repubblica del Congo, dall’altro, che formano la Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (CEMAC). Il CFA è utilizzato da 14 Paesi africani con una popolazione complessiva di 162 milioni di abitanti ed un Pil di 235 miliardi di dollari.
Parigi ha sempre preso tutte le decisioni importanti riguardanti il franco CFA, spesso senza nemmeno informare in anticipo gli Stati interessati. Ciò accadde nel 1994, con conseguenze drammatiche e contro il parere della maggior parte dei leader africani, quando la Francia decise di svalutare il franco CFA del 50%, modificando così, per la prima volta in quarantasei anni, la sua parità con il franco francese.
Il margine di manovra dei governi africani è sempre stato molto limitato anche perché il potere monetario francese è stato, per decenni, indissociabile da un altro potere, quello militare. Tra il 1960 e il 1999, dopo Cuba, fu la potenza che dispiegò il maggior numero di soldati in Africa. Durante questo periodo, mentre l’Avana sosteneva i movimenti di liberazione nazionale, Parigi portò a termine quasi quaranta interventi militari in sedici paesi per difendere i propri interessi. Destò molto scalpore la vicenda di Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso e leader carismatico di tutta l’Africa Occidentale. Dopo numerosi attacchi al presidente francese Mitterand, Sankara, venne ucciso il 15 ottobre 1987 in un colpo di Stato ordito dall’ex-compagno d’armi Blaise Compaoré che, con l’appoggio dei francesi, resterà alla guida del Paese per 27 anni, fino al 31 ottobre 2014 quando fu costretto a dimettersi e a rifugiarsi in Costa d’Avorio. L’Africa è il continente da cui provengono una buona parte delle materie prime francesi.
Il passaggio dal franco francese all’euro, avvenuto il 1° gennaio 1999, è il secondo evento importante, dopo la svalutazione del 1994, che segnò la storia della zona franco CFA negli ultimi tre decenni e fu interamente deciso e gestito da Parigi. Molti economisti africani lanciarono l’allarme: optando per una parità fissa e non aggiustabile, i Paesi africani rischiavano di vedere la propria politica monetaria allineata a quella dell’eurozona e di diventare meno competitivi nelle esportazioni. I cittadini africani, da parte loro, non vennero mai consultati. Sebbene il governo francese avesse indetto un referendum nel 1992 sulla ratifica del Trattato di Maastricht, i dirigenti francesi e africani non ritennero che questo test democratico fosse appropriato per i Paesi africani.
Il franco CFA è stata l’arma principale dello Stato francese per garantire la continuità del sistema di dominazione della “Françafrique”. Grazie ad esso, la Francia ha potuto estrarre risorse significative dal continente africano, tra cui alcune materie prime strategiche, mentre le sue aziende si sono aggiudicate facilmente commesse avendo, per giunta, la possibilità di rimpatriare liberamente i propri profitti in Francia.
La premier Meloni ha dichiarato, nella conferenza stampa con Ursula Von der Leyen, di voler assecondare il desiderio di Papa Francesco di lavorare per la riduzione del debito africano, evitando di ripetere ciò che accadde nel 2001 con il C2D (Contratto di riduzione del debito e di sviluppo). Questo meccanismo fu creato dalla Francia in seguito alla decisione dei Paesi creditori di cancellare i debiti dei Paesi poveri fortemente indebitati (HIPC). Mentre quasi tutti i creditori cancellarono i debiti bilaterali contratti dai loro partner, la Francia scelse di convertirlo in un modo molto particolare, tramite l’Agenzia Francese per lo Sviluppo (AFD), un’istituzione pubblica francese per il finanziamento dello sviluppo: una volta che un Paese povero, fortemente indebitato, avesse firmato un C2D con l’AFD, avrebbe dovuto continuare ad onorare il proprio debito fino al suo rimborso e, ad ogni scadenza, l’AFD avrebbe versato al Paese l’importo corrispondente sotto forma di sovvenzione.
Questo venne anche utilizzato per finanziare programmi di riduzione della povertà. L’AFD controllava l’intero processo, partecipando alla selezione dei settori da finanziare, controllando gli appalti, ecc. Le aziende che beneficiarono dei contratti finanziati da questo meccanismo furono essenzialmente francesi. Per il primo C2D (520 milioni di euro) concluso nel 2006 con Yaoundé, l’88% dei progetti stradali venne assegnato ad entità francesi, tra cui una filiale di Vinci. Nell’ambito del secondo C2D (327 milioni di euro) firmato nel 2011, la consulenza e l’assistenza tecnica per i progetti nel settore agricolo furono affidate ad organizzazioni tutte francesi. L’AFD giustificò questa predominanza con il fatto che i gruppi francesi operavano da tempo in Camerun ed avevano, di conseguenza, acquisito competenze e fonti di approvvigionamento di materiali più efficienti rispetto ai loro concorrenti. I prestiti francesi agevolati dal sistema CFA e dai C2D consentirono quindi alle aziende francesi di consolidare le loro posizioni storiche e i loro monopoli. Tutto ciò a scapito dello sviluppo della rete imprenditoriale locale.
In generale, la zona franco resta un terreno molto redditizio per le grandi aziende francesi. Poiché il rischio di deprezzamento della valuta tra il franco CFA e l’euro è nullo grazie al tasso di cambio fisso, gli imprenditori non hanno nulla da temere quando investono. Questo vantaggio non è trascurabile; non ci sono rischi che i rendimenti attesi dai loro investimenti siano distorti dalle variazioni del tasso di cambio euro/franco CFA. Grazie al libero trasferimento dei capitali, le aziende francesi mantengono inoltre la possibilità di rimpatriare in Europa, senza restrizioni, gli utili realizzati nell’area del franco e di disinvestire rapidamente quando la congiuntura diventa sfavorevole. La zona franco continua, inoltre, a offrire ai produttori francesi mercati in cui si trovano in una posizione di fornitori privilegiati. Ciò è dovuto al fatto che gli Stati africani non sono mai stati in grado di industrializzare le proprie economie e quindi di trasformare le materie prime in modo da soddisfare i mercati interni.
I francesi tendono spesso a minimizzare il contributo della zona del franco e, di conseguenza, i benefici apportati all’economia francese dal mantenimento del franco CFA. La zona del franco rappresenta circa l’1% del commercio estero francese. Tuttavia, questi dati non riflettono tutti gli aspetti delle relazioni commerciali con i Paesi della zona del franco CFA. Non menzionano, ad esempio, che le sue ex colonie africane spesso pagavano dal 20% al 30% in più per le loro importazioni dalla Francia rispetto ai prezzi mondiali. Al contrario, gli importi pagati dalla Francia e dalle sue aziende per i prodotti della zona del franco CFA sono spesso inferiori ai prezzi di mercato.
È noto che le royalties pagate al governo nigerino dal gruppo francese Orano (che fino a gennaio 2018 si chiamava Areva) fossero molto basse, soprattutto perché non compensavano i problemi ecologici e sanitari causati dallo sfruttamento delle miniere. “Se il Niger estrae uranio da quarant’anni e ne ricava meno delle esportazioni di cipolle, allora c’è un problema”, osservò l’ambasciatore cinese a Niamey nel 2010. Ogni volta che i funzionari nigerini hanno chiesto un aumento del prezzo pagato dalla Francia, Parigi ha fatto orecchie da mercante, provocando colpi di Stato o sfruttando i gruppi ribelli se necessario.
Tutte queste “preferenze commerciali” hanno permesso alle aziende francesi di sopravvivere in un contesto di agguerrita concorrenza globale. Un’altra caratteristica ignorata dai dati ufficiali: la maggior parte delle materie prime importate dalla zona del franco è vitale per le sue industrie. Pertanto, se le sue importazioni di uranio dal Niger rappresentano solo lo 0,12% delle sue importazioni totali, è chiaro che la Francia non potrebbe fare a meno di questo prodotto strategico dall’oggi al domani, il cui sfruttamento copre il 30% del suo fabbisogno civile e il 100% di quello militare. Senza di esso, non ci sarebbe l’energia nucleare, che fornisce quasi i tre quarti della produzione elettrica francese, non ci sarebbe l’autosufficienza energetica e non ci sarebbe alcuna forza di “deterrenza nucleare”. Il mantenimento di relazioni privilegiate franco-africane, e quindi del franco CFA, ha consentito alla Francia di difendere la propria posizione nel frenetico gioco della concorrenza tra “grandi nazioni”.
Pur essendo programmato per servire gli interessi francesi, il sistema CFA offre alcuni vantaggi economici ad alcuni gruppi sociali africani. L’ancoraggio del franco CFA all’euro, una moneta forte, consente, ad esempio, agli importatori dei Paesi africani di fare buoni affari importando prodotti che competono facilmente con la produzione locale, spesso non competitiva e scarsamente protetta. Fornisce alle classi medie e alte un potere d’acquisto internazionale “artificiale” e la libertà di trasferire capitali consente inoltre alle élite più abbienti di investire le proprie fortune, acquisite legalmente o meno, in Europa e altrove.
Ma, nonostante ciò, il sistema CFA in realtà infligge quattro gravi handicap ai Paesi che vi aderiscono: un regime di cambio eccessivamente rigido, un ancoraggio problematico all’euro, un debole finanziamento delle economie e una libertà di trasferimento che genera colossali fughe di capitali. “Dobbiamo abbandonare il franco CFA”, affermano sempre più i movimenti sociali africani e diversi economisti. Come si può fare?
La pressione sul franco CFA continuerà ad aumentare nei prossimi anni a causa di un fattore inarrestabile: il cambiamento demografico. Nel 1950, con i suoi 41 milioni di abitanti, la popolazione francese era superiore a quella dell’attuale zona del franco africano, che allora contava 30 milioni di abitanti. Oggi, il rapporto è completamente invertito: i quindici Paesi della zona del franco sono due volte e mezzo più popolosi della Francia (162 milioni di abitanti contro i 64 milioni del 2015). Entro il 2100, avranno 800 milioni di abitanti contro i 74 milioni della Francia, secondo le proiezioni delle Nazioni Unite.
La legittimità di Parigi a garantire le valute africane sarà indebolita perché l’economia francese probabilmente non sarà più abbastanza grande da renderla credibile. La CEDEAO (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale), che racchiude gli otto Paesi francofoni dell’UEMOA e sette Paesi anglofoni, tra cui la Nigeria, sta lavorando per una soluzione “panafricana”, con un progetto per la creazione di una moneta unica. Tuttavia, permangono molte incertezze, in particolare legate alla Nigeria. Quest’ultima, la più grande economia della regione, ha posto un prerequisito fondamentale per la nascita della moneta unica: i Paesi dell’UEMOA devono presentare un piano di divorzio dal Tesoro francese, ma sono finora sembrati poco propensi a recidere il cordone monetario che li lega alla Francia.
L’atteggiamento del presidente francese Macron ha poi creato forti tensioni; il discorso di Abidjan del 2019, in cui Macron annunciò che il franco CFA dell’Africa occidentale si sarebbe chiamato “ECO” a partire da luglio 2020 (progetto poi rinviato al 2027), determinò la rottura con i Paesi anglofoni, in particolare con la Nigeria, poiché è proprio questo nome che i Capi di Stato e di governo dei quindici Paesi della CEDEAO – inclusi gli otto dell’UEMOA – avevano già scelto per designare il nuovo progetto di moneta regionale unica che intendevano collegare a un paniere di valute (euro, dollaro, yuan, sterlina inglese) e non solo all’euro (ECO è l’abbreviazione di ECOWAS).
Il risentimento contro il presidente francese è evidente in tutta l’Africa Occidentale; come conseguenza abbiamo assistito alla cacciata delle truppe francesi dal Mali, ai colpi di Stato in Burkina Faso e Niger, alle tensioni in Costa d’Avorio, alle tensioni con la Nigeria. La Francia ha perso la primazia in Africa e solo un’azione congiunta dell’Unione Europea con la piena attuazione del Piano Mattei può limitare la presenza cinese e russa, riaprire la strada della cooperazione e creare le basi per lo sviluppo dell’Africa. In questo contesto il superamento del franco CFA e l’acquisizione della sovranità monetaria ed economica è una tappa obbligata. Altrimenti i due obiettivi dell’Onu per il 2030 (basta povertà e fame zero) sono destinati a restare lettera morta.
Risuonano le parole di Papa Benedetto XVI che, nella giornata mondiale del migrante e del rifugiato nel 2012, affermò che, prima ancora che il diritto ad emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè ad essere in condizione di rimanere nella propria terra, ripetendo con Papa Giovanni Paolo II che «diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione» (Discorso al IV Congresso mondiale delle Migrazioni, 1998). Oggi, infatti, vediamo che molte migrazioni sono conseguenza di precarietà economica, di mancanza dei beni essenziali, di calamità naturali, di guerre e disordini sociali. Invece di un pellegrinaggio animato dalla fiducia, dalla fede e dalla speranza – si legge nel messaggio di Benedetto XVI – migrare diventa allora un «calvario» per la sopravvivenza, dove uomini e donne appaiono più vittime che autori e responsabili della loro vicenda migratoria.