
Innovazione e conservazione
Giacomo Boni, l’archeologo dannunziano: l’amore per Roma, per il Foro e l’approccio pionieristico nella ricerca
A cent'anni dalla sua scomparsa lo studioso rimane un personaggio contemporaneo: nella sua visione, la capitale italiana svolge un ruolo rilevante, perché piena di sacralità
Il prossimo 10 luglio ricorre il centenario della morte di Giacomo Boni, figura monumentale dell’archeologia italiana, ricordato soprattutto per gli scavi del Foro Romano, ma anche perché grazie a lui si è potuto sviluppare un “sentire archeologico” non meramente accademico, ma nutrito da un profondo senso del Sacro, dalla consapevolezza della memoria storica, e da una visione nazionale. Nato a Venezia nel 1859 e formatosi come architetto, Boni presto rivolse la propria attenzione all’archeologia, dando ad essa un piglio multidisciplinare. Egli studiò da autodidatta e fu uno studioso dalla conoscenza vastissima: fu anche per questa sua libertà che i rapporti con i rappresentanti dell’accademia non sempre si rivelarono idilliaci. La sua notorietà, comunque, oltrepassò ben presto i confini italiani, tanto che gli vennero conferite due lauree honoris causa a Oxford e a Cambridge.
Giacomo Boni e l’approccio pionieristico all’archeologia
L’approccio di Boni è decisamente pionieristico, perché egli, traendo spunto dalla propria conoscenza dell’antichità e della storia dell’arte, pensava all’archeologia non come semplice recupero materiale, ma semmai come “scavo del tempo”, quale possibilità per costruire una narrazione del paesaggio storico. Egli, inoltre, introdusse un’estetica del recupero, che influenzò il restauro dei monumenti antichi e che, con il suo approccio filologico e simbolico, ha ispirato diverse generazioni di studiosi. Egli operò una rivoluzione culturale e di metodo, che, nei decenni successivi, fu in grado di influire non poco su una concezione dell’archeologia più moderna, rispettosa dei luoghi, della loro anima e della loro funzione simbolica. La sua visione, non a caso, rimane anche oggi di grande attualità.
L’innovatore con lo scavo stratigrafico
Tra le innovazioni a cui il suo nome è indissolubilmente legato c’è la stratigrafia: è stato lui, infatti, nel 1885, il primo a introdurre lo scavo stratigrafico nell’archeologia classica: un metodo che rivoluzionò la ricerca archeologica e aprì alle successive innovazioni novecentesche. Nel 1898 divenne direttore degli scavi al Foro Romano, a cui nove anni dopo si aggiunsero quelli sul Palatino, dove è sepolto, negli Orti Farnesiani. A lui si deve, nel gennaio del 1899, dopo un sogno premonitore, la scoperta del Lapis Niger, uno dei luoghi più misteriosi e simbolicamente carichi del Foro: sotto il lastricato di marmo nero, vennero trovati un cippo in tufo, i resti di un altare con basi e colonne, e una stele con un’iscrizione particolarmente antica, che in un latino arcaico riporta la parola “sakros” e una sorta di maledizione per chi avrebbe mai violato quel luogo.
La sacralità di questo luogo è legata soprattutto alla memoria della città stessa, poiché si disse che qui sarebbe stato ucciso Romolo e vi sarebbe stato sepolto un antico re. La stessa iscrizione misteriosa fa riferimento proprio a un re: in pratica, una porta simbolica su una Roma arcaica, iniziatica, fondata sulle regole dell’antica Tradizione Romana.
Le grandi scoperte di Giacomo Boni
Grazie a Boni, fu anche portato alla luce il “Mundus”, apertura sotterranea connessa ai riti fondativi della città, simbolo del punto di contatto tra il mondo dei vivi e quello dei morti, dalla profonda funzione rituale, legata al tempo ciclico e al cosmo come ordine sacralizzato. Durante gli scavi a Roma, egli scoprì anche il Comizio e la Curia, il Tempio di Vesta, la chiesa di Santa Maria Antiqua, gli edifici imperiali sul Palatino e le tracce delle fasi repubblicane. “Vivendo nel Foro – scrisse – sentii nascere in me l’intimità colle pietre che a prima vista paiono mute e indifferenti”.
“Con la sua azione visionaria – come ricorda ArtsLife – Boni ha plasmato, ha creato il parco archeologico del Colosseo, conferendogli l’assetto paesaggistico che noi oggi possiamo ammirare”. E non è un caso che, a cento anni dalla morte, proprio il Parco Archeologico del Colosseo – che nel 2021 gli dedicò la mostra “Giacomo Boni: l’alba della modernità” – ricorderà la sua figura con una grande iniziativa culturale.
Il Foro è uno spazio sacro
Nella visione di Giacomo Boni, il Foro è uno spazio sacro, a partire dal quale riscoprire l’anima della romanità. Questa sua visione, che appare come una personale sintesi fra religione romana, ritualità sacra, misticismo e nazionalismo culturale, lo portò ad entrare a più riprese in rapporti con i politici del tempo, da Francesco Crispi a Sidney Sonnino, fino a Benito Mussolini: egli pensava che i governanti avrebbero potuto e dovuto dare il giusto ruolo alla religione dei Romani, riattualizzandone il culto e attuandolo. Aderì con entusiasmo al movimento fascista, ritenendo che la sua ascesa al potere avrebbe potuto portare a una rifondazione della religione romana delle origini. Aspettativa che non si tradusse in realtà e su cui, come è noto, fu posta una pietra tombale con i successivi Patti Lateranensi del 1929.
Un archeologo d’annunziano
Boni fu sostenitore dell’impresa dannunziana di Fiume e, con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, sebbene cinquantenne, decise di partire per il fronte. Nel 1923, due anni prima della morte, fu nominato senatore del Regno, inserito tra le personalità che davano maggiore lustro alla Patria. Sempre nel 1923 collaborò con Roggero Musmeci Ferrari Bravo, noto scrittore, drammaturgo e studioso di tradizioni antiche, alla tragedia Rumon. Boni disegnò per l’occasione i caratteri romani arcaici utilizzati sia nel cartellone che nel testo, unendo così il rigore archeologico alla dimensione estetica e simbolica dell’opera. Musmeci, appassionato di misteri e simboli, unì alla propria ricerca una visione iniziatica, contribuendo a riscoprire aspetti nascosti della Roma arcaica, partecipando, peraltro, con lo pseudonimo “Ignis”, al Gruppo di Ur: un’altra figura che andrebbe riscoperta e studiata.
L’importanza degli edifici sacri romani
Negli scritti meno noti di Boni, come le sue osservazioni sull’orientamento degli edifici sacri e le sue ricerche sulle fondazioni romane, emerge una consapevolezza astrologica, cosmologica e rituale che trascende l’archeologia positivista. La fondazione della città secondo l’orientamento degli astri, la presenza di assi simbolici, e il ricorrere di numeri e forme sacre, richiamano quella “Roma magica” che sarà al centro della riflessione di diversi studiosi successivi. Egli fu anche un “operativo”, nel senso che volle personalmente mettere in atto alcuni gesti rituali dal forte significato simbolico: tra questi, la commemorazione del “Lacus Curtius” di fronte alla Curia nel 1903, la purificazione del Tempio di Giove Vincitore nel 1916, e, nel 1917, la costruzione dell’Ara graminea sul Palatino, realizzata sulla base di un passo di Orazio, ma andata distrutta non molto tempo dopo.
A cento anni dalla sua scomparsa, Giacomo Boni resta una figura centrale, contemporanea: archeologo, architetto, pensatore visionario, spiritualista, senatore, uomo di rituali e di pietre. La sua eredità è un mosaico di intuizioni e conquiste che continuano a interrogare la modernità e l’identità stessa dell’archeologia italiana. Che continuano a interrogare tutti noi.