CERCA SUL SECOLO D'ITALIA

La Foiba di Basovizza e Francesca Carpenetti

L'intervista

Francesca Carpenetti: “Io, figlia di esuli, ricordo la dignità, oltre il dolore. Chi espone le bandiere titine celebra gli assassini di italiani”

Carpenetti è anche dirigente del Comitato 10 febbraio: «Non è una scelta, ma una necessità morale. Far conoscere le storie del confine orientale significa anche rendere omaggio alla forza d'animo di quegli italiani che non si arresero mai»

Politica - di Cristina Di Giorgi - 1 Giugno 2025 alle 07:00

Il ricordo di quanto avvenuto sul confine orientale italiano nel periodo a cavallo della fine della Seconda guerra mondiale e non solo, per coloro che credono nella verità storica e nella memoria condivisa, è un segno di omaggio e di rispetto per quanto sopportato dai connazionali delle terre di Istria, Fiume e Dalmazia. A tutto questo, per quanti hanno vissuto quell’esperienza in modo diretto o per vissuto familiare, si aggiungono conseguenze profonde, che incidono sulla consapevolezza della reale portata di quei drammi. Ecco perché la loro preziosa testimonianza può essere d’aiuto, per tutti, a capire meglio. E ad entrare nel vivo di quanto accaduto. Ne parliamo con Francesca Carpenetti, figlia e nipote di esuli istriani e dirigente del Comitato 10 febbraio.

Ci racconti qualcosa della storia della tua famiglia?
«Siamo originari di Orsera, un paesino della costa istriana, nei pressi di Pola. Ursaria, romana. Orsara, veneziana. Orsera, italiana. Vrsar, croata: queste quattro parole racchiudono tutta la nostra storia. E da sole spiegano tutto. Orsera era un luogo splendido, in cui il mare aveva tutte le sfumature del turchese, i sempreverdi sugli scogli erano dolci e profumati, le strade si inerpicavano verso la chiesa. Tra i rintocchi dei campanili veneziani specchiati sulle acque, la vita trascorreva serena ed operosa ed era piena di grande dignità.

Mio nonno paterno lavorava in Prefettura a Pola, e non aveva mai manifestato alcun interesse politico. La famiglia della mia bellissima nonna Anna aveva una distilleria che si trovava appena fuori del paese. Il mio papà, Francesco, giocava, amato, sulle ginocchia del nonno. Tutto andava benissimo, erano felici. Fino al giorno in cui fu necessario fuggire furtivi, di notte, su una piccola imbarcazione, per salvare la propria vita dalle foibe e dalla crudeltà titina. Dopo lungo tempo trascorso nei Silos a Trieste e nei luoghi di rifugio profughi, i miei decisero di fermarsi in quella che divenne poi un nuovo luogo dell’anima, per loro prima e per me poi, ma col cuore stretto dal dolore e dalle pene di aver dovuto abbandonare tutto e tutti a Orsera.

Tra gli esuli mio papà è uno di quelli che ce l’ha fatta. Uno degli esuli che hanno portato alto il nostro tricolore, affermando la nostra identità di istriani e riuscendovi nel mondo dello sport. Giovanissimo calciatore della Triestina, nel 1959 esordì in serie A nella Roma e vestì la casacca giallorossa per dieci anni. Giocò insieme ad Herrera e Pugliese, Losi e Pizzaballa, Capello e Angelillo. Era un difensore e tra i tanti campioni che ebbe occasione, in campo, di marcare, ci fu nientemeno che Pelè».

Che significato ha, per un esule, il termine “Ricordo”?
«È il tentativo di mantenere viva una parte della propria identità, quella che è stata spezzata dal distacco forzato, quella legata alla nostalgia di un luogo, di una comunità, di un’epoca che non esiste più. È una condizione mentale e spirituale che, spesso, diventa un rifugio interiore: quando la realtà del presente è difficile o dolorosa, infatti, ci si rifugia nel ricordo di un passato che, pur essendo segnato dalla perdita, rappresenta anche le proprie radici, con le quali si ha un legame che non si potrà mai spezzare completamente. E ancora, il ricordo è una somma complessa di sensazioni ed emozioni: nostalgia, speranza, dolore, identità… È un pezzo del proprio essere che resiste al cambiamento e all’allontanamento, un legame invisibile ma potentissimo con un mondo che esiste solo nella memoria. Ma non solo. Il ricordo, infatti, non è semplicemente un atto di memoria passiva, ma rappresenta un elemento fondamentale per costruire l’identità di tutto il Paese. E anche la giustizia storica: in questo senso il “Ricordo” deve andare oltre la memoria privata e divenire un obbligo collettivo e istituzionale che ripari a un’ingiustizia che purtroppo, ad oggi, non è stata ancora completamente riconosciuta».

Cosa ha rappresentato, per chi ha vissuto sulla propria pelle quelle drammatiche pagine di storia, la legge istitutiva del Giorno del Ricordo? E perché secondo lei ci sono voluti così tanti anni per approvarla?
«La Legge 92/2004 non è solo un atto di commemorazione, ma anche un simbolo di riscatto per quanti, per decenni, sono stati emarginati dalla narrazione ufficiale della storia italiana. Ricordare le foibe e l’esodo, dunque, non è solo una questione di memoria, ma anche di giustizia, di identità e di costruzione di un racconto nazionale che abbracci tutte le sue sfaccettature. La legge però, bisogna ricordarlo, è arrivata quando tanti (troppi!) esuli se ne erano già andati, senza neppure il conforto dato dalla carezza di un ricordo.

Il ritardo nell’approvazione è dipeso dal fatto che la legge ha incontrato enormi resistenze politiche e culturali, radicate in un contesto di divisioni ideologiche e di memoria storica parziale: quasi tutti a sinistra, infatti, si sono sempre tenacemente opposti per evitare di compromettere l’immagine “eroica” della Resistenza. Per decenni il loro approccio dominante è stato quello di ridurre o giustificare la violenza delle foibe come una reazione alla brutalità del regime fascista, senza riconoscere a quelle vicende la dignità di una tragedia umanitaria a sé stante. Tante nobili battaglie personali per superare le resistenze politiche e per fare pressione in Parlamento al fine di riconoscere la sofferenza delle vittime delle foibe e degli esuli, l’impegno di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e anche un cambiamento di clima politico e culturale, hanno permesso finalmente, nel 2004, il riconoscimento ufficiale di questa parte della storia italiana. Resta però purtroppo fermo un fatto amaro: la guerra l’hanno fatta e persa tutti gli italiani, ma il prezzo della sconfitta lo hanno pagato quasi solo gli italiani del nord-est…».

La cronaca dei nostri giorni, purtroppo, è piena di gesti vandalici contro targhe e monumenti in ricordo di quanto accaduto in Istria, Fiume e Dalmazia. E non solo: ci sono anche diversi libri riduzionisti o addirittura negazionisti. Come si sente di commentare?
«Sono atti e fatti che parlano da soli. Ogni danno a un monumento o a una targa commemorativa è come un ulteriore atto di violenza simbolica che cancella il ricordo di quanti hanno sofferto e nega loro dignità e memoria. Con buona pace dei principi che dovrebbero guidare le società realmente civili e democratiche. Aggiungo che mi preoccupa molto l’avanzare di tendenze revisioniste che mirano a modificare (quando non addirittura a falsificare) la lettura storica degli eventi del secondo dopoguerra. Se non si fa attenzione il rischio è che le generazioni più giovani crescano senza una comprensione piena e onesta di quegli eventi tragici. Il revisionismo, sostenuto da persone che sono fuori tanto dal tempo e dalla storia quanto dal più semplice buon senso, non solo offende la memoria di chi ha sofferto ma può anche portare a una riemersione di conflitti irrisolti e a nuove divisioni ideologiche che minano la coesione sociale».

Sempre su questo argomento, recentemente abbiamo visto, a Trieste durante il corteo del Primo Maggio, l’esposizione di bandiere con la stella rossa titina. Immagino che per lei e la sua famiglia non sia stato facile assistere all’ostentazione di tali stemmi…
«Per me la stella rossa è legata a quello che ho provato le poche volte in cui, da piccola, insieme alla nonna varcavamo la frontiera per tornare ad Orsera. Ricordo come fosse ieri l’atmosfera plumbea e polverosa di vie tristi, così diverse da quelle vivide e colorate della nostra Italia. Vie in cui si stagliavano minacciose le figure dei soldati slavi, con appunto la stella rossa sul berretto, che ci guardavano truci. La loro espressione torva e la nostra paura me li ricordo benissimo. E quella maledetta stella rossa, che allora non sapevo cosa fosse, mi incuteva terrore. Poi ho saputo che era (e resterà sempre) il simbolo di coloro che hanno perseguitato e ucciso gli italiani nelle terre orientali e per questo ancora oggi rappresenta un insulto a chi ha sofferto e subito le nostre tragedie. Mostrarla in un contesto pubblico come il corteo del Primo Maggio a Trieste è un modo di minimizzare il dolore e la sofferenza delle persone che sono state vittime del regime comunista titino, che vuol dire solo a Trieste 4000 persone scomparse nel nulla…».

Ci sono persone e luoghi simbolo di quello che è accaduto: penso per esempio a Norma Cossetto e al Magazzino 18, nel porto Vecchio di Trieste. Qual è, secondo lei, l’importanza, oggi, di far conoscere queste storie che, come disse Ottavio Missoni, anche lui esule, riguardano coloro che sono stati “Italiani due volte. Per nascita e per scelta”?
«Sono storie di vite spezzate e luoghi che ricordano la sofferenza di tante persone. Sono simboli. Una parola questa che deriva dal greco e significa “mettere insieme, confrontare”, dunque unire e collegare realtà diverse. Ecco perché i simboli sono importanti, anche e soprattutto quando pagine storiche come quelle delle foibe e dell’esodo hanno subito una narrazione lacunosa e unidimensionale. In questo contesto la figura di Norma Cossetto e il Magazzino 18 sono fondamentali in quanto emblematici di una parte della memoria storica che deve essere raccontata e insegnata alle nuove generazioni. Perché è cruciale che soprattutto i giovani imparino a conoscere tutte le varie sfaccettature della storia del Paese, senza che alcuni eventi vengano dimenticati o ridotti. Ai giovani, ma non solo a loro, una frase come “Italiani due volte. Per nascita e per scelta” può dire (e dare) molto, perché è una dichiarazione di identità e ferma tenacia. Rappresenta la lotta per mantenere viva la propria cultura e memoria storica anche di fronte a enormi sfide come quelle vissute dagli italiani delle terre orientali. È una celebrazione della dignità di chi, pur costretto a fuggire e a perdere tutto, ha scelto di non abbandonare la propria italianità».

Un’ultima domanda. So che lei è dirigente nazionale del Comitato 10 febbraio, un’associazione molto attiva nel trasmettere il Ricordo della tragedia delle foibe e dell’esodo. Come vive questo impegno che, per lei, è anche storia di famiglia?
«Essere dirigente del Comitato 10 febbraio per me non è solo una scelta, ma una necessità morale. Mio padre, i miei nonni… tutti loro hanno vissuto l’esilio e le conseguenze di una guerra che non hanno scelto. I miei familiari hanno provato sulla loro pelle le conseguenze dell’esodo giuliano-dalmata e hanno perso molto, ma hanno anche trovato la forza di ricostruire una nuova vita. Io non amo la parola “resilienza”, preferisco parlare di “forza d’animo”. Che è poi quella dimostrata dagli esuli con il loro attaccamento all’identità italiana. Una forza che ha dato loro la capacità di guardare in faccia il dolore senza illusorie vie di fuga.

Le sofferenze che hanno affrontato e superato, gli esuli tutti e anche la mia famiglia, non sono solo parte del loro passato, ma sono anche parte di ciò che siamo oggi, del nostro impegno per preservare la memoria e trasmettere alle nuove generazioni una visione autentica di ciò che è accaduto. Anche per questo per noi discendenti di esuli è fondamentale, come fa il C10f, dare voce a chi per decenni è stato silenziosamente dimenticato. Far conoscere le loro storie per me è un atto di giustizia e ha un valore immenso: significa ricordare non solo la sofferenza ma anche la dignità, la forza d’animo e la speranza di chi ha tanto sofferto ma ha avuto la forza di ricominciare».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

di Cristina Di Giorgi - 1 Giugno 2025