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Riflessioni sulla crisi della democrazia

Fuori dai luoghi comuni

È vero, è in atto una crisi della democrazia. Ma bisogna intendersi su cosa significhi

C’è una causa crisi ideologica di fondo: il concetto di democrazia è stato identificato non con l'uguaglianza di diritti politici, ma con l’uguaglianza di qualsiasi cosa con qualsiasi cosa. Che vuol dire la dissoluzione di ogni valore e di ogni criterio di giudizio

Politica - di Ulderico Nisticò - 1 Giugno 2025 alle 07:00

È un luogo comune, ormai, e quando una cosa si dice e molti la ripetono, c’è qualcosa di vero; e più di qualcosa, pare: è in atto la crisi della democrazia. Solo che bisogna analizzare il concetto, o diventa un luogo comune senza significato.

Se per democrazia intendiamo il consenso popolare, e anche l’eventuale dissenso, c’è sempre stata in qualsiasi momento della storia; e anche i re più potenti dovettero in qualche modo ottenere una qualsiasi conferma, o, diremmo, certificazione. Esempio: il più autocratico di tutti i sovrani, il Sommo Pontefice Vicario di Cristo in terra, è onnipotente e infallibile, però è anche elettivo. Lo era, con tutti gli incidenti della vicenda storica, anche l’imperatore del Sacro Romano Impero. Lo era il talassocrate doge di Venezia. Persino alcuni sovrani assoluti ed ereditari vennero deposti o uccisi… E accadde a diversi zar.

I sistemi che, in tempi più recenti, si definirono esplicitamente democratici (sinonimo, popolari) hanno mostrato, e mostrano, una palese varietà di istituzioni. Esempio: il presidente Usa, che da quando s’insedia è quasi un sovrano, non viene indicato dal suffragio universale ma dai grandi elettori, i quali potrebbero, ed è accaduto, cambiare idea anche rispetto alle urne. La Francia, senza scordare la monarchia assoluta e i due imperi militari, ha cambiato dal 1789 tre monarchie diciamo costituzionali e cinque repubbliche. In Svizzera le donne votano solo dal 1970; e qualche tempo prima, non votavano nemmeno tutti i maschi, solo i capifamiglia. Eccetera. La Gran Bretagna si regge su un compromesso tra poteri, senza una Costituzione scritta.

E veniamo all’Italia. Dal Medioevo al XVIII secolo, la fatal Penisola mostra una vastissima varietà di entità statali, e in esse, di istituzioni: monarchie o principati, repubbliche aristocratiche, repubbliche oligarchiche, comuni a mutevole regime popolare, signorie più o meno legali, tirannidi, potere informale… e le città, anche piccole, si governavano secondo statuti concessi o patteggiati con il potere politico o feudale. Ce n’è una ricchissima raccolta nella sede del senato.

Tra il 1796 e il 1814, giacobini e napoleonidi andavano dicendo di essere democratici e costituzionali, ma il loro regime era sulle baionette. I sovrani restaurati ebbero, senza alcuno sforzo da parte loro, un potere tale che non ne avevano mai detenuto uno dei loro predecessori di diritto divino. Nei fatti, erano brave persone poco capaci. Si cominciarono a chiedere costituzioni, assumendo il modello britannico, o quello che ne sapevano. Sorvoliamo su altri tentativi, per dire dello Statuto Albertino del 1848, che sanciva la divisione dei poteri, e il legislativo veniva eletto (da pochissimi abbienti, ma eletto!), mentre l’esecutivo restava al re: per modo di dire, e subito venne in mano della camera politica; il senato, di nomina regia, era sempre più decorativo.

Il Regno Sardo, poi d’Italia, divenne così una monarchia parlamentare e partitocratica. Il diritto di voto venne poi lentamente esteso fino al suffragio universale maschile del voto del 1913; per le signore, il 1946. La repubblica attuale, in concreto, non si scostò molto dall’Albertino, e si diede istituzioni partitocratiche, estese pure al Senato.

Da allora, molta acqua è passata anche sotto i ponti del Tevere. I partiti del 1946 non esistono più dagli anni Novanta; e con essi sono svanite le ideologie e le passioni politiche; e molti semplicemente non vanno a votare. E, attenti qui e a questo paradosso: rispetto al 1946 sono non diminuite ma aumentate le emarginazioni, perché a quelle economiche, anch’esse relativamente crescenti, si aggiungono (e più forti!) quelle esistenziali e culturali; e, altro paradosso, gli emarginati culturali sono diplomati e laureati, e tuttavia molto all’oscuro e confusi quanto alla politica.

Ebbene sì, negli anni 1950-80 qualsiasi vecchietta analfabeta aveva opinioni chiarissime, soprattutto a proposito del sindaco; e oggi le sue scolarizzatissime ed emancipate nipotine manco sanno se ci sono le elezioni. Ecco dunque un caso di istituzioni democratiche presenti e sancite, però in evidente crisi effettuale. Eppure, e parlo come storico e politologo, una forma di rappresentanza è necessaria, comunque la si voglia intendere.

Non c’è però un solo modo di concepire la democrazia; o, come preferisco dire, la partecipazione, e dico in senso politico. C’è una causa crisi ideologica di fondo, ed è che il concetto di democrazia è stato identificato non con l’isonomia (uguaglianza di diritti politici) ma con l’uguaglianza di qualsiasi cosa con qualsiasi cosa, e di qualsiasi idea con qualsiasi idea, anche la più sballata; il che, di conseguenza, vuol dire l’uguaglianza al minimo e anche meno del minimo, e la dissoluzione di ogni valore e di ogni criterio di giudizio.

Giuro che non scherzo: era il lontano 1965 quando un mio prof prete, infervorato, tuonava contro il fatto che ammiravamo giocare in Nazionale solo i campioni e non tutti quanti in quanto “persone umane”. Ecco un caso di democrazia perdente perché fondata sull’utopia dell’uguaglianza a zero; e della fine di ogni discriminante di qualità e di operatività e di dovere; e in cambio, orgia di diritti a spirale. Ai diritti non c’è mai fine, come alla romanzesca “ricerca della felicità”.

E siccome insegna il Vico che “i governi devono essere conformi alla natura dei popoli”, le istituzioni che non sono conformi non vanno più bene (anche ammesso andassero bene prima!), e occorre pensarne altre; e anche altre forme di rappresentanza popolare e di selezione dei governanti e del loro modo di governare. Del resto i partiti moderni… ma no, anche quelli ateniesi e romani e medioevali e ottocenteschi, erano in qualche modo espressione dei ceti, o, nella società industriale, delle classi sociali; oggi le classi sociali non esistono più, anzi nemmeno i ceti con le loro mentalità ereditarie; e i partiti sono sempre più vertici senza base, quindi senza comunità.

Ma perché non dirlo? C’è anche che i modi di partecipazione di un tempo non sono quelli di ora. Oggi si può mandare una Pec che vale come raccomandata con ricevuta di ritorno, e trattare affari di milioni: con lo stesso sistema non si potrebbe votare da casa? Le elezioni mica sono un secondo lavoro per presidenti e addetti: non so se è chiaro. Lo stesso per le riunioni di partito, come ormai tutti facciamo nelle videoconferenze. E perché continuare a parlare solo di partiti, e non anche dei corpi intermedi naturali e della loro rappresentanza?

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di Ulderico Nisticò - 1 Giugno 2025