
Parla Francesco Giorgino
«Pregiudizio e scollamento: ecco perché il ceto intellettuale non comprende il ruolo dell’Italia nel mondo»
Francesco Giorgino, volto di punta di Rai1 e professore di Comunicazione e Marketing all'università Luiss, risponde alle domande del Secolo d'Italia sul rapporto tra discorso pubblico e governo Meloni
La maggior parte del pubblico lo conosce come volto di punta di Rai 1 e come giornalista di lungo corso, ma da oltre venticinque anni egli associa all’attività televisiva quella di accademico e di studioso di scienze sociali. È in questa veste che Il Secolo d’Italia lo ha intervistato per acquisire un parere sul “discorso pubblico” e il governo Meloni. Intellettuale moderato e cattolico, saggista, analista dei principali fenomeni macro-sociali e professore alla Luiss di Comunicazione e Marketing. Nell’ateneo di Confindustria, a partire dalla Luiss School of Government, Francesco Giorgino insegna materie di grande rilevanza: Marketing politico e istituzionale, Content marketing, Brand storytelling, Newsmaking. È il teorico del framework MICS, ovvero Marketing, Information, Communication Systems, elaborato per sottolineare i profili di contaminazione tra questi tre ambiti, considerando soprattutto la fruizione da parte dei cittadini dei diversi contenuti nell’ambito delle dinamiche tipiche dell’ecosistema digitale.
L’Italia è una delle potenze industriali d’Occidente e una delle locomotive politiche ed economiche d’Europa, ma la “narrazione” offerta dal ceto intellettuale sembra non accorgersene. È d’accordo?
«Parlare di “narrazione” è assai opportuno. Con questo termine intendiamo, almeno nel linguaggio delle scienze sociali, un modo uniforme di rappresentare la realtà, il ricorso sistematico solo ad alcuni significanti verbali e non verbali (per dirla con de Saussure) ed un criterio interpretativo unilaterale che condiziona l’andamento del discorso pubblico. Si parla spesso di “narrazione mainstream” per segnalare la corrente di pensiero dominante. In questo caso ci si riferisce al pensiero dominante così come prodotto dai vecchi e nuovi intellettuali: in questa seconda categoria facciamo rientrare anche i molti opinionisti e i giornalisti che ogni giorno e su tutti i canali, compresi quelli della platform society, commentano l’attualità. Non si sottovaluti il fatto che il mainstream, specie quello di matrice culturale, è condizionato dall’esito obbligato delle argomentazioni utilizzate per sostenere una determinata tesi, con il risultato del rifiuto palese di quelle opzioni ermeneutiche che ribalterebbero, se fossero davvero adoperate, molte verità preordinate e precostituite».
Con quali effetti?
«Si genera un atteggiamento miope e al tempo stesso strabico, ovvero una ricostruzione o una costruzione della realtà che non vede appieno tutto ciò che c’è da vedere e che, sostanzialmente, opera a beneficio di una sola parte. La meccanica esecutiva di questo approccio, epistemologico ed empirico al tempo stesso, prevede la selezione preventiva di alcuni temi e non di tutti quelli che possono (e devono) essere considerati e trattati. Essa conferisce valore assoluto (e non relativo) a quei particolari che si vuole assolvano al ruolo di prova finale e definitiva del ragionamento in atto, ma che spesso non hanno nemmeno la dignità del semplice indizio. Non solo. Questa meccanica esecutiva si concretizza nell’uso reiterato di “parole ombrello”, che alla fine diventano solo un debole segno di riconoscimento identitario e nulla di più».
Un segno di riconoscimento?
«Di fronte a questa situazione, occorre chiedersi a cosa si ispira quello che lei giustamente chiama “ceto intellettuale” nell’esercizio di una funzione che continuo a ritenere cruciale specie nelle società ipercomplesse e interconnesse come le nostre, quali siano le sue reali intenzioni, se trattasi di atteggiamenti riservati a tutta la classe politica o solo alla coalizione di centrodestra? La mia opinione è che l’intellettuale deve rispondere solo al suo amore per la verità, frutto a sua volta della propria sete di conoscenza della realtà e sulla realtà e di una predisposizione alla coltivazione di idee libere e di pensieri strutturati e radicati nell’articolazione del reale e non solo nel rispetto del primato del simbolico, come lo definiva Jean-Francois Lyotard».
Come esercitare compiutamente questo ruolo?
«La figura dell’intellettuale potrebbe essere, come voleva per esempio Tomas Maldonado, persino l’artefice di una palese manifestazione di eterodossia, ma a patto che ciò non avvenga in modo discontinuo rispetto a chi esercita il potere deliberativo. Con alcuni premier sì e con altri no. Egli può anche coltivare una visione oracolare, ma ricordiamoci che per essere guida della società bisogna non solo apparire credibili, ma anche esserlo davvero. Occorre rinunciare al “doppiopesismo” analitico ed evocativo. Bisogna saper parlare a tutti e non solo ad una parte, saper dimostrare libertà di giudizio con l’intento di evitare che il pluralismo culturale e valoriale sia solo la somma di pratiche di significazione della realtà frutto di esercizi interpretativi e descrittivi iper-semplificati da parte di intellettuali organici, di gramsciana memoria».
C’è divaricazione tra intellettuali e realtà?
«Lo scollamento è già avvenuto e, purtroppo, non si arresta. Lo dimostra, per esempio, il fatto che più il governo Meloni viene criticato da certi intellettuali e da certi opinionisti e più cresce nei sondaggi. Qualcosa vorrà pur dire tutto ciò o no? Ho sempre pensato che il vero intellettuale è chi recupera il valore della congiunzione diacronica passato-presente-futuro, chi non rinuncia alla centralità delle proprie radici culturali, chi ha piena consapevolezza della contemporaneità, chi coltiva una visione prospettica, chi è libero di esprimere consenso e dissenso senza il condizionamento, implicito ed esplicito, dei governanti di turno, ma anche chi comprende che l’alimentazione del “politicamente corretto”, specie se a senso unico, genera mostruosità narrative come per esempio la “cancel culture”, incoraggia posture asfittiche, poiché costrette a rimanere dentro il recinto ristretto di rimasugli e rigurgiti post-ideologici e di contrapposizioni manichee ed anacronistiche su questioni datate e soprattutto non in linea con i veri principi ispiratori delle opinioni pubbliche, più che di pubblici occasionali».
Quale postura assumere, invece?
«Ritengo necessario superare i limiti strutturali del modus operandi di molti intellettuali postmoderni, i quali sembrano più interessati a inseguire il senso comune della collettività mediatizzata, che a sciogliere i veri nodi interpretativi creatisi a fronte dei grandi temi del nostro tempo: ruolo della tecnologia e dell’intelligenza artificiale, disuguaglianze economiche e sociali, difesa dei confini nazionali, ripensamento del paradigma della globalizzazione, peso della finanza rispetto all’economia, riscoperta della politica come “policy” più che come “politics”, identità nazionale, bilanciamento tra sostenibilità ambientale e sostenibilità sociale ed economico-finanziaria, equilibrio tra cultura dei diritti e cultura dei doveri».
Potrebbe offrirci uno strumento di studio?
«Ho riletto di recente un vecchio libro del sociologo Frank Furedi. Si intitola Che fine hanno fatto gli intellettuali? Ho trovato interessante come spunto di riflessione la volontà, segnalata già dal sottotitolo del volume I filistei del XXI Secolo, di ricreare una sfera pubblica e non solo una sfera pubblica mediata, come la definisce Thompson. Un contesto, insomma, in cui sia evidente il contributo che gli intellettuali possono dare alla creazione di una cultura non vincolata al pensiero unico, piuttosto legata alla democrazia nel senso di “governo del popolo”, “governo dal popolo”, “governo per il popolo”. In tale ottica, è utile ricordarsi che l’Occidente non è solo un luogo geografico, ma un sistema di valori, un ambiente socio-culturale fatto di tradizione, di innovazione, di sperimentazione, di visione. Un ambiente nel quale la narrazione sull’Italia, a maggior ragione se fatta male dagli italiani per gli italiani, non può ridursi a macchiettismo, a tuttologia, ad intrattenimento di massa, ricorrendo solo a quelli che Pierre Bourdieu ha definito i “fast thinkers”. Non può ridursi, insomma, al progressivo affogamento della competenza nel mare magnum degli stereotipi e dei luoghi comuni».
Che succede quando la narrazione dei media e del ceto intellettuale non è sincronizzata con i processi politico-istituzionali in corso? E che cosa accade nelle democrazie quando i termini del dibattito pubblico non sono percepiti come prioritari dalla gente comune?
«Si crea un pericoloso corto-circuito. La sincronizzazione con i processi politico-istituzionali, per le ragioni che indicavo in precedenza, non significa di certo riproporre la visione novecentesca dell’intellettuale organico, ma riconoscere anzitutto che c’è un interesse nazionale da tutelare, pur nel sacrosanto esercizio del diritto di critica da parte di tutti, ma anche su tutti. Non è possibile che la ragione sia solo da una parte e che i torti siano solo nella parte opposta. Se anziché discutere nel merito delle soluzioni prospettate dal sistema politico rispetto ai problemi avvertiti dalla collettività come urgenze (se non come vere e proprie emergenze), ci si concentrasse sulla polemica fine a sé stessa, sulla sterilità della dicotomizzazione a tutti i costi, sulle antinomie alimentate da una media logic intrisa di polarizzazione e desiderio di disintermediazione, il sistema istituzionale, prima ancora che quello politico, si indebolirebbe e collasserebbe. A chi conviene avere istituzioni fragili? Il bello delle democrazie rappresentative è che a guidare le danze sono i cittadini con le proprie scelte».
Ha detto i cittadini?
«Sono loro che decidono chi deve governare un Paese attraverso libere elezioni. Non è un caso che nel linguaggio gius-costituzionalistico i cittadini sono considerati “elettorato attivo” e i rappresentanti scelti da loro sono considerati, invece, “elettorato passivo”. Se i cittadini non avessero la chiara percezione che il proprio voto conta davvero, che incide seriamente sul funzionamento complessivo del Paese, sarebbe ancor più inevitabile la prospettiva del consolidamento del fenomeno dell’astensionismo, ovvero della rinuncia all’esercizio di uno dei più importanti diritti costituzionali a nostra disposizione. Tutto questo va detto, segnalando nel contempo la difficoltà a contrastare quella prospettiva che, a proposito degli intellettuali cresciuti nell’alveo della media culture più che delle biblioteche e delle aule universitarie, si concretizza anche nella separazione della parola “informazione” dalla parola “giornalismo”. In un mio recente lavoro scientifico ho parlato a tal proposito di “informazione senza giornalismo” e di “giornalismo senza informazione”. È un tema rilevante quest’ultimo, specie nell’ottica della costruzione e della gestione del dibattito pubblico e in chiave di allineamento tra la rappresentazione e la percezione della realtà».
È possibile un nuovo allineamento?
«Approfitto della sua domanda per rivolgere, altresì, un appello a tutti i leader affinché sappiano governare il distacco tra la comunicazione politica e quella istituzionale. C’è un tempo in cui la comunicazione politica deve diventare elettorale per assicurarsi il consenso degli aventi diritto al voto e convincere gli indecisi e c’è un tempo, invece, in cui essa deve assumere le sembianze, chiare ed inequivocabili, di un linguaggio pensato per tutti ed usato in funzione del rafforzamento della percezione del buon funzionamento dell’apparato dello Stato e degli enti locali. Le istituzioni di un Paese democratico sono il luogo in cui si governa il presente e si progetta il futuro. Non è banale ribadirlo».
Dalla genialità di Adriano Olivetti ed Enrico Mattei siamo passati, addirittura, a un paradossale pregiudizio anti-italiano che si fa fatica a estirpare. Com’è potuto accadere?
«Lei ha citato due visionari, di cui l’Italia deve andare orgogliosa. Adriano Olivetti ha inventato l’idea della “comunità d’impresa”. Ha legato i modelli produttivi agli stimoli derivanti anche dalle scienze umanistiche, oltre che da quelle economiche e manageriali. Ha puntato sì sulla distribuzione dei profitti, ma anche sulla cultura d’impresa, sulla democrazia interna alle organizzazioni aziendali e sulla più vasta cultura della democrazia attraverso il principio della “fabbrica per l’uomo”, più che dell’ “uomo per la fabbrica”. Olivetti ha reso l’utopia una possibilità di crescita a misura dell’essere umano. Ha professato il credo della responsabilità sociale d’impresa, operando nel contempo sul piano della “leadership adattiva”, la quale intercetta il valore dell’innovazione di processo oltre che di prodotto (per dirla con Schumpeter), liberando il potenziale creativo ed inclusivo in ottica di cambiamento e trasformazione della società. Un filone agentivo, il suo, replicato da molti a livello globale».
Ed Enrico Mattei?
«Un atlantista convinto che ha lasciato all’Italia (e non solo) una lezione di determinazione e di coraggio, ponendo il nostro Paese al centro dello sviluppo economico e sociale, infrangendo le influenze dominanti e più consolidate (all’epoca) in ambito energetico e petrolifero. Anche in questo caso, come per Olivetti, l’utopia è discesa dalla dimensione metafisica a quella fisica grazie ad una visione “politica” (un nuovo rapporto con i Paesi produttori) che dimostra come, con intelligenza e lungimiranza, sia stato possibile abbandonare ogni tentazione colonialistica per inaugurare la stagione della collaborazione e della reciprocità. Un messaggio attuale, come dimostra il piano a lui intitolato: piano fortemente voluto dal governo Meloni. Una cornice operazionale quest’ultima creata per far lavorare insieme pubblico e privato anche in aree dell’Africa nelle quali l’Italia non è mai stata presente finora».
Quando sarà possibile avere una memoria realmente pacificata?
«La strutturazione della memoria storica di un Paese, altro compito del ceto intellettuale, non può avvenire con omissioni e ossessioni. Omissioni di quello che di buono è stato realizzato in passato e viene realizzato oggi in Italia e dall’Italia. Ossessioni per quelle pagine oscure e tragiche della prima metà del XX secolo che sono molto lontane dal presente. Il pregiudizio è una pianta velenosa che cresce nell’aridità delle conoscenze, nella riproduzione a loop di opinioni preconcette, nella mancanza di serenità di giudizio sui fatti storici e sulla contemporaneità, nell’eccesso di militanza. È difficile comprendere che gusto si provi, se non quello connesso all’ostilità e all’astio personale nei confronti di chi guida un Paese, a demolire “a prescindere” tutto quello che si fa in Italia. A chi giova davvero l’anti-italianità? Quanto può essere redditizia sul piano del consenso, per esempio, l’assenza di un vero e proprio gioco di squadra tra maggioranza e opposizione sulle grandi questioni del presente e del futuro, come dimostrano, del resto, la politica estera e la politica economica?».
La metafora sportiva basta a descrivere la profonda polarizzazione della classe politica nostrana?
«La dialettica tra maggioranza e opposizione è il sale della democrazia ed è giusto che chi ha responsabilità di governo venga incalzato da chi non ce l’ha, ma il confronto (talvolta anche lo scontro) devono avvenire nel merito delle proposte, devono essere gestiti con finalità migliorative e di integrazione delle soluzioni messe in campo in sede d’avvio dell’iter legislativo, come è d’uopo nella dinamica parlamentare all’interno del modello della democrazia rappresentativa. Tifare per l’insuccesso del governo di turno, sperando di trarre qualche vantaggio contingente, rappresenta una visione di scarso respiro, che oltretutto indebolisce l’immagine del nostro Paese nell’interlocuzione con il resto del mondo e soprattutto con quei top player che a livello geopolitico stanno facendo e continueranno a fare la differenza».
Come uscirne?
«È evidente che il pre-giudizio antitaliano ha radici profonde, ma pensando al dibattito degli ultimi mesi tra maggioranza e opposizione credo valga la pena di riflettere sull’opportunità di ripartire da una verità tanto ovvia, quanto difficile da attuare: prima vengono gli interessi dell’Italia e degli italiani e poi quelli delle singole parti politiche. L’antidoto al pregiudizio è quella che Max Weber chiamava “etica della responsabilità”, ovvero la consapevolezza delle conseguenze sugli altri del proprio agire. La responsabilità è una categoria indispensabile in politica, nella maggioranza, così come nell’opposizione. Va esercitata anzitutto nel discorso pubblico, se si vuol far crescere il peso del nostro Paese in questo mondo in preda al disordine e al disorientamento collettivo».
Sui dossier più complicati del momento – dazi Usa, guerra in Ucraina e riarmo dei paesi Ue – il governo italiano, attraverso l’attivismo personale della premier Giorgia Meloni, sta facendo da pontiere tra le due sponde dell’Atlantico. È un caso che la foto simbolo dell’incontro pacificatore tra Donald Trump e Volodymir Zelensky sia stata scattata proprio a Roma?
«No, non è un caso che questa foto storica sia stata scattata a Roma, nel cuore del Vaticano e in una giornata con una enorme valenza simbolica per il mondo intero, quella cioè dei funerali di Papa Francesco. Giorgia Meloni ha operato con discrezione e riservatezza, sapendo occupare gli spazi di retroscena, come avrebbe detto Goffman, e non quelli di palcoscenico. Il suo è stato un atteggiamento sobrio ed operoso. Ha compreso la necessità improrogabile di far fare al processo di pace sull’Ucraina un passo in avanti, forte di un rapporto personale con Trump (e non solo con lui). Non sottovalutiamo il fatto che il primo risultato di quell’incontro è stato l’accordo firmato il 30 aprile scorso tra Stati Uniti e Ucraina sulle cosiddette “terre rare”. È difficile comprendere come il dibattito politico italiano abbia potuto concentrarsi solo sulla realizzazione di una classifica di chi tra Meloni, Macron, Starmer conti di più e chi conti di meno, di chi sia in salita e chi in discesa in base solo a chi c’era o chi non c’era nelle foto scattate durante le esequie di Bergoglio, a chi fosse destinata la terza sedia durante l’incontro tra Trump e Zelensky. Così come non è agevole capire come sia stato possibile tifare per il fallimento del viaggio della premier negli Stati Uniti, in un momento in cui l’obiettivo di molte cancellerie era (ed è) quello di ridurre gli effetti negativi dei dazi decisi da Trump. Dazi poi sospesi. Come si fa ad ignorare i benefici del consolidamento del rapporto tra Italia e Stati Uniti, peraltro già avvenuti all’epoca in cui Presidente era Biden? Si pensi a quale destino avrebbe avuto il nostro Paese se l’opinione pubblica nazionale dell’epoca avesse remato contro l’esito positivo del viaggio di De Gasperi negli Usa nel 1947. Un viaggio che rappresentò la premessa del cosiddetto miracolo economico. Miracolo che ha rimesso in moto l’Italia dopo il periodo post-bellico. Ci sono delle fasi della storia nelle quali tutto diventa poco significativo di fronte all’enormità della posta in palio».
Intravede delle analogie?
«Giorgia Meloni ha compreso fin dall’inizio della sua esperienza di governo che doveva puntare sulla politica estera che, come dimostra l’accordo con gli Emirati Arabi e il varo dello stesso Piano Mattei, restituisce ampio valore anche in ambito economico oltre che sul piano delle relazioni internazionali. Il protagonismo dell’Italia a livello internazionale si costruisce un passo per volta, giorno dopo giorno. Non è un caso, del resto, che il nostro Paese sia il luogo scelto per celebrare la Conferenza internazionale per la ricostruzione dell’Ucraina, che abbia fatto da cornice al dialogo tra Usa e Iran sulla delicatissima questione nucleare e che è probabile che la trattativa tra Stati Uniti ed Unione europea in materia di dazi venga realizzata proprio nella città di Roma».
A proposito di Roma, il funerale di Papa Francesco, con la presenza dei principali leader del pianeta a San Pietro, ci ha raccontato una centralità della capitale d’Italia che è difficile da sottovalutare. È possibile pensare alla missione universale della Chiesa cattolica senza il contributo dell’Italia? E viceversa: quanto la politica estera italiana può trovare nel Vaticano una sponda efficace?
«La missione universale della Chiesa cattolica e il ruolo dell’Italia nel mondo sono in fondo due facce della stessa medaglia. È così fin da quando, con i Patti Lateranensi del 1929, si chiuse la cosiddetta “questione romana” dell’epoca risorgimentale e fu creato lo Stato della Città del Vaticano nel cuore della capitale. Con quell’accordo in realtà all’Italia non fu tolto nulla. Al contrario fu dato tanto in termini di legittimazione internazionale, anche nei periodi più bui. Si pensi al ruolo della Santa Sede nell’arginare l’occupazione nazista, a quello in favore dell’Italia e dell’Europa dopo il secondo conflitto mondiale, al superamento della divisione del mondo in due blocchi, Est ed Ovest, che ha visto in Giovanni Paolo II un artefice determinato e lungimirante, al contributo dato da Benedetto XVI al dialogo tra fede e ragione, all’impegno fino allo spasimo di Papa Francesco in favore della pace e a presidio della centralità della misericordia e della speranza. Non solo coincidenza di luoghi e prossimità territoriale, dunque, ma anche relazioni personali tra i Pontefici e i rappresentanti delle più importanti istituzioni del nostro Paese. Non trascuriamo mai il fatto che il Papa è il vescovo di Roma. Più volte questa dimensione è stata messa in particolare evidenza dai pontefici: si pensi a Giovanni XXIII, a Paolo VI (i Papi del Concilio Vaticano II), a Giovanni Paolo II e allo stesso Papa Francesco».
Quanto hanno giovato i rapporti tra il capo del governo e Papa Francesco?
«Abbiamo appreso in queste giornate che ci separano dall’avvio del Conclave per l’elezione del nuovo Papa che tra la Meloni e Bergoglio c’era un flusso conversazionale che andava al di là delle ben note occasioni ufficiali. La stella polare di questi incontri è stata, evidentemente, la sintonia umana più che quella politica, la comune attenzione alle ragioni del popolo, al carattere e all’empatia. La partecipazione di Bergoglio al G7 in Puglia è stato un importante successo diplomatico per la premier, che ha parlato di “amicizia”, di “consigli” e “insegnamenti” ricevuti dal Papa anche nei momenti di sofferenza, come quelli dell’ultimo periodo della sua vita. Lasci che le dica che non sarà facile il compito del nuovo pontefice, considerando la pesante eredità di Papa Francesco. Lasci che le dica che la Chiesa cattolica ha il compito di indagare, a partire dalla scelta del nuovo successore di Pietro, qual è il vero discrimine tra temi con valenza teologica e temi con valenza sociologica».
E Roma, la Città eterna?
«La centralità di Roma, sì. Non si sottovaluti l’eredità che essa ha lasciato nella politica, nell’arte, nell’architettura, nel diritto, imprimendo al mondo occidentale una direzione ben precisa. Roma, grazie al suo sistema repubblicano, è stata una delle prime democrazie del mondo, anche se poi si trasformò in impero con Augusto. La civiltà occidentale è intrisa di romanità, la cui grandezza è ben testimoniata dalla rilevanza di un diritto che, unitamente a idee e costumi, come ben ricordato da Gaetano Mosca, si è diffuso “senza apparente coazione”. Roma non può sentirsi meno importante di Atene e dei grandi filosofi che operarono nella costruzione delle basi del pensiero come Socrate, Platone e Aristotele. A Roma sono state impiantate, insomma, le radici del mondo occidentale. È un bene ricordarselo nel momento in cui si stanno ridefinendo sia i rapporti interni all’Europa, sia quelli tra Europa e Stati Uniti, storico e strategico alleato del nostro Paese. È un criterio quello delle nostre radici assai utile per districarsi nei meandri dell’intreccio determinatosi tra gli assetti geopolitici e quelli geoeconomici dell’era contemporanea».
Nella trasmissione che lei ha condotto e coordinato da metà novembre 2024 ad inizio aprile 2025, “XXI Secolo”, ampio spazio è stato dedicato alle istituzioni e all’Italia che lavora e produce. Passa anche da qui la futura narrazione del sistema Paese?
«XXI Secolo, già dal titolo e dal sottotitolo – Quando il presente diventa futuro – è stato da me ideato, coordinato e condotto in segno di discontinuità rispetto a gran parte della programmazione d’approfondimento. Mi sono posto il problema di raccontare l’attualità con chiavi interpretative in linea con la complessità del nostro tempo e con l’intento di congiungere i tre tempi dell’esperienza umana: passato-presente-futuro. Soprattutto mi sono posto il problema di assicurare una narrazione positiva sull’Italia e dell’Italia, senza enfatizzazioni e senza risse verbali, lasciando spazio all’argomentazione. C’è una parte del nostro Paese che difficilmente trova diritto di cittadinanza nell’offerta mediale. Io credo che uno dei compiti del servizio pubblico radiotelevisivo multimediale, nel rispetto pieno del pluralismo, sia quello di agevolare anzitutto la comprensione delle logiche istituzionali, di mettere in evidenza la fattualità a partire dalle migliori pratiche in uso in tutti i settori, di sostenere la coesione sociale dentro la cornice di un Sistema Paese che ha sì debolezze e fragilità, ma anche molti punti di forza. L’orgoglio di essere italiani si genera anzitutto attraverso un cambio radicale di storytelling. È facile e anche piuttosto comodo mettere in luce la parte peggiore dei nostri territori e dei nostri connazionali, fare insomma un’informazione sensazionalistica. È più difficile, ma necessario, allargare il nostro sguardo analitico. Abbiamo voluto affrontare temi che sebbene non fossero facili, era opportuno venissero spiegati a tutti con un linguaggio accessibile e semplice, senza rinunciare alla segnalazione delle vere emergenze del Paese e senza rifuggire dalla critica costruttiva».
È possibile fare un bilancio?
«Le prime due edizioni di XXI Secolo sono andate molto bene in termini di share. Il pubblico di Rai 1 ha apprezzato questo programma. Onestamente non so se passa anche da XXI Secolo la futura narrazione del Paese, ma se questa trasmissione venisse confermata dai vertici aziendali anche per le prossime stagioni, a partire da quella 2025-2026, e se fosse ulteriormente rafforzata nella sua struttura e programmazione… Beh, le posso assicurare che, proseguendo lungo questa strada con uguale determinazione e motivazione, questo importante risultato potrebbe essere raggiunto».